L'analisi di un nuovo e peculiare esordio come "Avé" pone un problema interpretativo basilare: il rispetto del principio assoluto dell'obiettività. Di fronte alla presenza simultanea di due band che rivendicano, più o meno tacitamente, l'appartenenza esclusiva allo spirito originario dei Venom, è pressochè scontato cadere in una partigianeria inevitabile, ma in fin dei conti inconcludente. Entrambe le anime hanno ben documentate ragioni per assicurarsi la patente di autenticità e probabilmente non rappresenta un male la coesistenza di una doppia entità in grado comunque di attirare un numero di supporters realmente notevole.
Tra il 1981 e il 1987 la trimurti Cronos-Abbadon-Mantas pubblica cinque lavori: grezzi, claustrofobici, in qualche misura distanti dalla fruttifera NWOBHM allora imperante, legati a tematiche e simbologie apertamente sataniche, con "Welcome To Hell" (1981) e soprattutto "Black Metal" (1982) si candidano alla carica onoraria di padri putativi della scena estrema che sarebbe esplosa qualche lustro successivo: una putrida miscela di speed metal e proto thrash'n'death che certo non spicca per eccezionale perizia esecutiva e produzione particolarmente professionale, ma che trae la propria forza da un approccio selvaggio e anticonformista difficilmente riscontrabile in gruppi coevi. La circostanza parzialmente casuale e fortunata poi che l'intero movimento della nera fiamma abbia scelto di autobattezzarsi scegliendo il titolo del secondo LP dei ragazzi di Newcastle, destina al culto universale e plurimillenario il gruppo inglese.
Sostenuti da una produzione anche eccessivamente levigata e cristallina, "Avé" sprigiona un bombastic heavy metal innervato da calibrati riferimenti non circoscritti solo alla scena estrema; a livello lirico gli argomenti spaziano dall'ipocrisia alla libertà individuale e filtrati da un satanismo riflessivo e umanistico lontano dalla calcolata pacchianeria degli esordi. La lunga title track, poderosa e mefistofelica, trasporta l'ascoltatore in un universo nel quale le tenebre spadroneggiano senza freni: una dichiarazione d'intenti carica di groove e suggestioni, tra un'assordante sezione ritmica e cori diabolici. La giostra infernale continua con "Forged In Hell ", robusto heavy metal di sapore antico, e "Metal We Bleed", traccia dal vigore primigenio e attraversato da vaghi profumi punk, con il fantasma di Lemmy Kilmister che veglia sornione: il basso di Tony Dolan mugghia furente, in un assalto thrash che alla velocità tambureggiante affianca il corpulento dialogo Mantas/Abbadon. "Dein Fleisch", dal refrain ammaliante e accompagnato da un video di gusto cinematografico, accoglie elementi industrial, mentre un vertiginoso assolo centrale di Dunn, in ottimo stato di forma quasi per l'intero disco, ne impreziosisce la struttura complessiva: elettrizzante esibizione del talento dello stagionato chitarrista, spesso ingiustamente soffocato durante l'era Cronos. "Time To Die" e "War" palesano la maturità tecnica ed esecutiva del trio: un virtuosistico speed metal dalle coloriture moderne, rapido, tirato e che non disdegna variegati inserti trashy. "Blood Stained" ed "Evil Dead", appesantiti da riff macchinosi, si rivelano i pezzi meno fantasiosi e frizzanti del lotto, sebbene si mantengano su sufficienti livelli di coinvolgimento; la ballata hard rock "Preacher Man" e la cavalcata anthemica "Kneel To No God" risollevano l'opus da un transitorio appannamento.