U2
All That You Can't Leave Behind

2000, Island
Pop Rock

Universale, unificatrice, umana.
Recensione di Costanza Colombo - Pubblicata in data: 12/08/18

"I'm just trying to find a decent melody
A song that I can sing in my own company"


Per almeno un paio di decenni, se c'è stato un nome in grado di confezionare musica accessibile ad un ampio spettro d'utenza, che vi piaccia o meno ammetterlo oggigiorno, sono stati gli U2. Accantonando le polemiche sull'ormai controversa figura di Bono Vox, e le derive esasperatamente radiofoniche, resta il fatto che per una certa generazione, la band irlandese sia stata, e sempre resterà, imprescindibile.

 

A discrimine del cambio di millennio, gli U2 pubblicano il loro decimo lavoro, "All That You Can't Leave Behind", la cui forza è d'essere un album per tutte le stagioni dell'animo e l'ultimo effettivamente tanto riuscito. Si parte con la natura assolutamente celebrativa della clamorosa "Beautiful Day" per passare alla comfort song da manuale "Stuck In A Moment You Can't Get Out Of" in cui Vox sposa una totale tenerezza di voce con versi so down to Earth da far breccia anche nel più affranto dei cuori. La triade d'assi mainstream in apertura culmina quindi con la contagiosa adrenalina di "Elevation" a ennesima dimostrazione del talento di Bono a mutar fluido all'occorrenza.

 

allthatyoucant 

La vera titletrack arriva però con l'indimenticabile "Walk On" la cui incrinata sincerità accumula ricordi ed emozioni, destinate a diventar presto nostalgie, in un crescendo che implode in quel "and you can only take so much" prima della chiosa che tanto ricorda, strutturalmente parlando, la chiusura dell'ancor più celeberrima "Eclipse" dei Pink Floyd. S'innalza poi, a immacolato e indiscusso vessillo della maturità raggiunta dagli irlandesi, una "Kite", che dopo l'assolo a 2:22, a distanza di quasi ormai vent'anni, continuerà a darvi i brividi anche al centesimo ascolto.

 

Sfilano poi doverose, ma piacevoli, alcune filler venate di pandemico buonismo e/o pacifismo in cui si distingue però lo strisciante fascino urbano di "New York" il cui carattere narrativo riuscirà a catturarvi, a prescindere dal vostro credo etno-religioso, fino all'irresistibile finale. A sigillo del tutto, e soprattutto di quanto di buono ancora riesca a sopravvivere su questa biglia intergalattica, toni e animi si stemperano nel candore di "Grace". Ancora si batte il tasto del sentimento globale, stavolta però con tutta la dolcezza concessa alla nostra specie.

 

Un inno all'addio e alla rinascita lungo dodici tracce. Chi altri ha mai fatto le valigie per cambiar vita ascoltandolo non potrà che concordare.


"You've got to leave it behind
All that you fashion
All that you make
All that you build
All that you break
All that you measure
All that you steal
All this you can leave behind"

 

Dedicata a Giulia Franceschini





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