Alice In Chains
Dirt

1992, Columbia Records
Grunge

La fuga, il tentativo di salvarsi, la musica come valvola di sfogo per una (im)possibile redenzione...
Recensione di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 16/02/14

Una fuga nel deserto, senza punti di riferimento, senza una meta in mente. Un solo pensiero: correre il più possibile, allontanarsi da quello spettro che con aria agonizzante appare tra i solchi del terreno arido e che ti angoscia costantemente. Una corsa feroce, che ti fa cadere nello sbaglio di consumare tutte le tue energie troppo in fretta, ed allora cerchi disperatamente una zona d’ombra, un po’ di refrigerio. Una pausa, un solo infinitesimale istante di pace e serenità. Ad un tratto la vedi, puoi persino percepirla, ma troppo tardi ti accorgi che è un mero miraggio.

Dirt” si incastona perfettamente come una pallottola in pieno petto nel periodo più florido di quel Grunge che nel 1992 vede risplendere la propria oscura bellezza nella quadrifonia composta da Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden ed Alice In Chains. Proprio la band di Jerry Cantrell e Layne Staley, vuoi per retaggio differente (i due negli anni Ottanta militarono in gruppi hard rock), vuoi per gusti musicali decisamente più ossessivi e vicini all’estetica dei Black Sabbath più sulfurei e claustrofobici, è la creatura che nell’ambiente di Seattle ha maggiormente seguito una evoluzione palese e marcata sia in termini di sound, sia in termini di atmosfere. Se “Facelift” era permeato, se vogliamo anche con un certo orgoglio, da influenze smaccatamente hard rock pur lasciando spazio a momenti  decisamente plumbei, è con “Dirt” che gli Alice In Chains scoprono con lacerante irruenza le proprie carte.

Le nozioni raccolte negli anni precedenti non scompaiono, ma vengono trasfigurate con il piglio che per loro è maggiormente congeniale: l’ossessione per le dissonanze ed il tentativo di catarsi. Se Cantrell si diverte ancora a creare riff hard rock come in “Dam That River” e “Junkhead”, è tuttavia in episodi come “Sickman”, “Rain When I Die” od “Angry Chair” che sfoggia il suo reale richiamo per le chitarre sgraziate ed angoscianti, la composizione ossessiva e claustrofobica, quasi a voler mettere alla prova colui che inserisce il CD (o la musicassetta, se vogliamo rimanere il più anni ’90 possibile) nello stereo. L’irruenza schizofrenica della musica si coniuga in maniera perfetta col cantato di Layne, rabbioso eppure melanconico, aggressivo eppure afflitto, desideroso di riscatto ma conscio dell’impossibilità dell’impresa. La sua voce diventa araldo di speranze vane e vaneggianti, di fragilità che non ha altro sfogo se non i versi che canta, urla, stride contro le frequenze che il microfono trasmette dall’altra parte. Racconta anche la dolce lacerazione interna di chi è come lui, di chi si rifugia nei buchi delle braccia per avere quello che all’apparenza è l’unico conforto possibile: “Down In A Hole” è null’altro che il dipinto acido di un Cantrell poco più che ventenne che affronta a suo (malo) modo una situazione pesante, troppo pesante per un ragazzo che ha come genitori un reduce del Vietnam (“Rooster” è dedicata proprio al padre) ed una donna strappata via da questo mondo all’improvviso, ad appena 43 anni.

Ed è proprio nelle dissonanze, nell’ossessione sonora, nella cantilena angosciante e sulfurea che si incanala il tentativo di catarsi di Jerry Cantrell, tentativo che sulla lunga distanza darà i suoi frutti positivi grazie anche ad aiuti esterni. Ed è proprio nelle dissonanze, nell’ossessione sonora, nella cantilena angosciante e sulfurea che si incanala anche il tentativo di catarsi di Layne Staley, il quale però non riesce a trovare il bando della matassa, rimanendo via via sempre più impigliato ed imprigionato il quel percorso che da tentativo di redenzione diverrà un canale di sfogo per la sua rassegnazione. Tutto ciò si paleserà nei successivi, sporadici lavori della band. In “Dirt” vi è ancora un barlume di flebile speranza, e vi è anche un pizzico di ironia quando compare Tom Araya degli Slayer che urla “I’m iron gland” in maniera simile all’Ozzy Osbourne di “Iron Man” (curiosamente la breve traccia, posta subito prima di “Hate To Feel”, non compare nella tracklist ufficiale); vi è la volontà di dimostrare di saper resistere, di rimanere a galla nonostante la rabbia, la disperazione, la fragilità.

Un album che s’insinua nell’ascoltatore in maniera ossessiva, graduale, implacabile. Un album importantissimo per l’evoluzione degli Alice In Chains, senza alcun dubbio il punto più alto raggiunto e che non troverà eguali nei successivi, perlomeno a livello sonoro-ossessivo. Un album, in definitiva, che non dovrebbe mancare nella teca dell’estimatore di musica rock, non necessariamente fanatico del grunge. “Dirt” è il racconto di una corsa, di una fuga che si conclude con la visione di un baratro e degli anfibi che a stento reggono l’equilibrio di corpi in bilico tra salvezza o caduta verso il vuoto. Un racconto in cui il lieto fine non può esser visto, né vissuto.



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