Steve Hackett
Wolflight

2015, Inside Out
Progressive Rock

Un capolavoro che sfugge a qualsiasi tentativo di catalogazione
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 05/04/15

Che l’ispirazione venga meno con l’avanzare dell’età è un luogo comune fra i più duri a morire in ambito musicale, ma che come tutti i luoghi comuni nasconde un fondo di verità. In mezzo a chi ripropone la stessa musica all’infinito nel nome di un’integrità di comodo e chi si sforza di seguire a tutti i costi le mode del momento, ci sono artisti capaci di uscirsene ogni volta con cose fuori dall’ordinario. Steve Hackett rientra senz’altro in quest’ultima categoria e il motivo è presto detto: sin dagli esordi il chitarrista londinese ha saputo abbinare il suo stile visionario e immaginifico a storie credibili e ben strutturate senza lasciarsi mai imbrigliare dalle convenzioni, neppure quelle di certo progressive rock che pur non ha mai rinnegato. Uno a cui a un certo punto della carriera sono andati stretti persino i Genesis, tanto per capirci. Si capisce dunque perché “Wolflight” sia molto più dell’ennesimo disco di un grande artista in età matura: si tratta infatti di un vero e proprio viaggio attraverso la storia di antiche popolazioni, poteri primordiali, terre lontane, riti esoterici che si perdono nella notte dei tempi, suggestioni racchiuse e sintetizzate dalla figura del lupo, questo animale adorato sin dall'antichità, capace anch'esso di ispirare e incantare intere civiltà come simbolo dello stato di natura e di forza primitiva. A fare da cornice a tutto questo c'è l'atmosfera tetra del disco: si respira un'aria quasi malata in "Wolflight", in cui le nubi, l'ignoto e le atmosfere torbide incombono minacciosi. 


Nessun genere sembra essere stato escluso su “Wolflight” o almeno così pare, Hackett incanta sia con il suo inconfondibile fingerpicking che con martellanti esempi di rock opera: gli otto magistrali minuti della title track valgono da soli il disco per il modo con cui rapiscono mente e cuore di chi ascolta. Il brano, non per caso scelto come singolo promozionale, condivide con “Corycian Fire” il gusto epico di evergreen come “Kashmir” e “Innuendo” (lo sappiamo, il paragone è forte, ma ci sta tutto) fra break dal sapore folk, inserti elettrici, operistici e persino di world music. Inedite atmosfere etno che farebbero invidia alla McKennitt caratterizzano un po’ tutta l’opera, in particolare “Dust And Dreams” grazie alla sua andatura da carovana nel deserto e ai suoni ben definiti, mentre la struggente “Love Song For A Vampire” è un esemplare spaccato di romanticismo ispirato ai primissimi King Crimson. Potremmo sezionare i brani di “Wolflight” uno a uno con perizia chirurgica oppure raccontarveli minuto per minuto, senza per questo intaccare la magia che scatenano all’ascolto. Ogni traccia è un autentico vaso di Pandora che libera una varietà di suoni e situazioni perfettamente funzionali all’economia del singolo pezzo: non c’è nel disco un solo passaggio scontato, né si può prevedere cosa succederà da lì a poco.


Potrebbe essere il degno erede di “Spectral Mornings”? Per le caratteristiche appena dette, senz’altro. “Wolflight” è un manifesto tributo al potere dell’arte intesa come ricercatezza, un disco dai toni drammatici che celebra le forze oscure della natura e scava nel cuore di chi lo ascolta: melodico, romantico, minaccioso e primordiale, un viaggio nel tempo, nello spazio e nella psiche. Un excursus antropologico al pari dell' "Homo Erraticus" di Ian Anderson, altro artista capace di mantenersi sempre attuale grazie alla capacità di raccontare storie, ciò che rende grande un artista e dà a un disco la vita eterna.




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