Red Hot Chili Peppers
By The Way

2002, Warner Bros. Records
Funk Rock, Pop Rock

Un disco di passaggio, non stravagante ma di grande importanza per la carriera dei Peperoncini Rossi.
Recensione di Giovanni Maria Dettori - Pubblicata in data: 16/08/18

"By the Way" arriva a tre anni di distanza da quel "Californication" pietra miliare del Rock dei fine '90 in cui la band aveva coniugato il meglio del passato con le nuove sonorità melodiche, a tratti spirituali, e pop che di lì in avanti avrebbero segnato in maniera sempre più decisiva il futuro dei Peperoncini Rossi. Il ritorno dell'ex chitarrista John Frusciante, rigenerato dopo una disintossicazione mai così provvidenziale, aveva dato nuova linfa vitale ai Red Hot con assoli hendrixiani e seconde voci che completavano e davano nuove forme alla stessa ugola di Kieidis, finendo spesso per recitare la parte da protagonista. Il tutto unito ad un ensemble mai così carico e maturo, con Flea forse meno pioniere del sound ma pronto ad adattarsi a qualsiasi evenienza e Chad che insomma, è Chad, e il ritmo lo tiene sempre senza problemi. 
 
 
"By The Way" chiaramente non replica il gran successo del suo predecessore, ma è un album di continuità: il nuovo equilibrio della band non doveva essere scalfito in alcun modo, non serviva osare perché il gruppo era in un momento d'oro ma soprattutto di grande serenità interiore, elementi che di lì a poco li avrebbero portati ad una serie di tour infinita, forse la migliore in assoluto (il concerto allo Slane Castle ne è la prova). E' dunque un disco "pacifico": scorrendo la setlist si sente questa scintillante soavità in brani come "Universally Speaking" o "Dosed", quest'ultima che suona come una ninna nanna in salsa californiana, o nell'inedita e dolcissima  "The Zephyr Song" che trascina leggera l'ascoltatore, facendogli dimenticare le capriole, il furore e i salti sul letto del passato. 
 
 
Ad equilibrare il rischio di un album troppo leggero, o molle compaiono alcuni dei brani più iconici della band. In primis "By The Way", il perfetto punto di incontro dei vecchissimi, dei vecchi e dei nuovi Red Hot dove c'è il groove, il rap, il funk e l'immancabile ritornello con le voci di Kiedis e Frusciante che si conciliano alla perfezione. Per non parlare di "Can't Stop", senz'altro nella top 5 dei brani più notevoli dell'intera produzione del quartetto di Los Angeles. Uno di quei pezzi che fanno bene alla musica Rock e che suona come qualcosa di veramente autentico, come uno di quei fuochi d'artificio scintillanti e filanti che cattura l'attenzione di tutto il pubblico distogliendo lo sguardo dagli altri, che sono sì belli ma non come quello, e si somigliano un po' tutti.
 
 
Non è certo tutto oro quello che luccica, perchè alcune tracce non sono proprio indimenticabili: basta dare un ascolto a "Don't Forget Me" o "I Could Die For You", un po' nella media e allo stesso tempo  sotto la media della produzione della band. Già, perché i Red Hot sono l'unico act probabilmente che ancora oggi (anno 2018) produce album al cui interno TUTTI i pezzi sono validi, per un motivo o per un altro e un qualsiasi pezzo non all'altezza dei loro lavori sarebbe magari la punta di diamante di un disco di molti altri gruppi. Processo che fa la differenza fra le grandi band e le altre, le migliaia che affollano la scena. "Throw away your television" è una prova chiara: adorabile, funkeggiante e sorprendente ma non indimenticabile. 
 
 
Eppure fa paura la sorprendente infinità di forme che prende la sei corde di Frusciante, specie dal secondo brano in poi, dando prova che John, probabilmente assieme a Tom Morello, è l'unico chitarrista che potrebbe trasformare il suo strumento persino in una lavatrice, o in una navicella spaziale, a seconda dell'occorrenza. C'è spazio anche per momenti più ludici, come l'acustica e messicaneggiante "Cabron", o nella doppietta rockeggiante "On Mercury" and "Minor Thing", quasi un esercizio di stile, una passeggiata di salute. "Warm Tape", con i suoi echi low-fi, è una delle chicche nascoste del disco lasciata sul finale della forse troppo lunga tracklist che si chiude dopo oltre un'ora con "Venice Queen", pista che anticipa le ancora più atmosfere maggiormente pop dei futuri album in un infinito carnevale di suoni diversi.
 
 
Molti, moltissimi fan non rimasero eccessivamente colpiti da questo disco, trovandolo un po' troppo scontato, poco sorprendente e molto nelle corde della band. Possiamo dire una cosa senza troppi dubbi: i Red Hot, in quel momento, in quella parte della loro carriera e in quella travolgente voglia di fare una cosa sola, cioè musica in abbondanza, non avrebbero potuto produrre un LP migliore. "By the Way" è un disco che prende sicuramente rischi, in primis per la sua durata e forse anche a causa di una ripetitività di cui si possono cogliere i segnali dopo averne uditi due terzi. Soprattutto ascoltandolo oggi è lampante come sia un album di mezzo, di compromesso, fra il grandioso "Californication" e la stravaganza dell'immensa e galattica esplosione di "Stadium Arcadium"... Ma è il disco che ha tenuto forse meglio salda e amalgamata in studio la band californiana, rigenerandola completamente e portandola mai così carica sul palco.  E forse questo qualcuno lo ha dimenticato, ma noi per fortuna no.





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