Moonsorrow
Verisakeet

2005, Spinefarm Records
Viking

Recensione di Federico Botti - Pubblicata in data: 26/12/10

A due anni dall'uscita del “Portatore di Pietre”, quel “Kivenkantaja” che aveva aperto i finnici Moonsorrow a un pubblico un po' più vasto, i Nostri ritornano con questo “Verisäkeet”, "Versi di Sangue", ma qualcosa appare diverso sin dall'aspetto esteriore dell'album. Custodia totalmente nera, un booklet che in copertina raffigura quella che sembra essere un'effige insanguinata, cinque brani per una durata totale che supera di poco i settanta minuti. Di colpo l'atmosfera pare essersi fatta più cupa, fredda (sebbene lo stesso “Kivenkantaja” non ci andasse proprio leggero in quanto a pesantezza dei suoni), la storia che ci racconteranno i Moonsorrow stavolta sarà bagnata del sangue di tante battaglie: nubi minacciose sembrano infatti addensarsi all'orizzonte, lunghe e oscure saranno le notti rievocate nelle storie dei Nostri, storie che parlano di miti e leggendarie battaglie, di reami caduti e regni dell'oltretomba, di divinità cadute e di epiche guerre.

Il viking dei Moonsorrow è strutturalmente molto complesso e articolato: le sue due maggiori componenti vanno ricercate nel black metal e nel folk, entrambe straordinariamente presenti all'interno di questo lavoro. Ville Sorvali è un animale in gabbia, aggredisce l'ascoltatore con scream gelidi e urla belluine, poche volte si concede parti in pulito. Di pari passo attorno a lui si scatena un'apocalisse sonora dall'elevato tasso di epicità, dove ferocia, malinconia e pulsioni titaniche avanzano incessanti e con piglio battagliero. Lo stesso piglio che si può trovare sin nell'apertura “Karhunkynsi”, impressionante in tutti i suoi quattordici minuti, travolgente nei suoi break pregni di tensione (due esempi, al minuto 3:30 e 8:36) e guidata da una vena quasi di follia che pare scatenarsi nella sua seconda parte. In mezzo a questo gran polverone si fanno largo anche elementi derivanti direttamente dal folk: si vedano a tal proposito l'uso di strumenti quali kantele, violini, flauti, arpe a bocca e fisarmoniche, magari leggermente in secondo piano rispetto a quanto avveniva in “Kivenkantaja”, ma non per questo meno incisivi. Un pezzo come “Haaska” trae di fatto le sue linee guida iniziali proprio dalla melodia di strumenti come questi. C'è poi un'altra considerazione che mi preme portare alla luce. Gli amanti del viking sanno benissimo che con la fine dei Bathory e di Quorthon questo genere ha perso un punto di riferimento non da poco: tanti sono stati gli emuli di tali sonorità, alcuni anche fautori di lavori di grande qualità, ma per quanto mi riguarda, quando devo individuare gli “eredi” dei Bathory la mia scelta cade sempre sui Moonsorrow. Tale mia convinzione è rafforzata dall'amore che i Nostri paiono avere non solo per la propria terra e per le leggende a essa connesse, ma anche per lo stesso Quorthon e per la sua band, che non mancano di omaggiare tramite strutture come i fieri cori a sostegno della parte cantata principale e gli inserti acustici disseminati qua e là nelle tracce (canti di uccelli, il sibilo del vento, lo scoppiettio di un falò ecc), che sono certo faranno la felicità dei sostenitori del viking. Con i Moonsorrow siamo ben lontani dalla fredda emulazione, con i finnici che paiono aver trovato un proprio equilibrio perfetto e inattaccabile, che può variare leggermente negli addendi (atmosfere ora più allegre e festaiole ora più cupe e drammatiche, come quelle presenti in questo disco) ma non fa di certo mutare il risultato finale.

Non è per niente facile fare un track-by-track delle tracce che compongono questo album, ma forse in fondo non sarebbe nemmeno giusto fare un'analisi di questo tipo, data sia la lunghezza dei brani che la loro varietà, composti come sono da uno svariato numero di digressioni a loro interne, cambi di tempo e di ritmo, sferzate passionali e eroiche intervallate da momenti di scoramento e carichi di pathos. C'è però un pezzo che non posso non portare all'attenzione dei lettori, “Jotunheim”, un viaggio di quasi venti minuti che tocca, per quanto mi riguarda, l'apice emotivo di tutto “Verisäkeet”. La struggente malinconia che fa da sfondo all'apertura ti fa pensare a un campo di battaglia al mattino, quando tutto è finito, i fumi degli incendi ormai spenti si perdono nella nebbia mattutina e grigi stormi di uccelli volteggiano sopra carcasse abbandonate e armi spezzate. Questa atmosfera di quiete viene interrotta bruscamente dal barbarico urlo di Ville: ecco che dai monti all'orizzonte scendono con furia nuove orde di avversari, e i pochi superstiti della battaglia precedente non possono che stringere con forza le proprie armi, trattenere il proprio cuore che sobbalza stanco e lanciarsi di nuovo in un ultimo, epico scontro. La furia dello scontro non si placa ma i toni si fanno, dopo diversi minuti, di nuovo malinconici e solenni, riprendendo (arricchendolo) e concludendo il tutto con il motivo utilizzato in apertura. “Kaiku” chiude fieramente il tutto, un canto corale che tanto mi ha ricordato “Hammerheart”, traccia conclusiva di “Twilight Of The Gods” di bathoriana memoria. Pare di vederli quei guerrieri, pochi stanchi e affaticati dall'enorme sforzo profuso nel difendere la propria terra dagli aggressori, commemorare attorno a un fuoco i propri caduti, rievocando le loro gesta e le loro imprese, in cuor loro già preparandosi per le prossime battaglie.

“Kivenkantaja” è stato un capolavoro, ma spartisce il proprio trono con il qui presente “Verisäkeet”. Più sanguigno, feroce e titanico, questo album rappresenta l'ennesima conferma dei Moonsorrow: non era facile infatti eguagliare il precedente album ma i Nostri ci sono riusciti, in qualche caso addirittura superandosi. Ma in fondo chi conosce la band sa che difficilmente i Nostri fanno passi falsi, con una discografia che, episodio dopo episodio, si sta rivelando priva di stonature e in continua crescita. Non c'è molto altro da dire, chi ama le fiere sonorità del viking deve fare sua questa gemma.




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