Loreena McKennitt
Parallel Dreams

1989, Quinlan Road/Warner
Folk

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 01/07/10

Dopo il primo passo rappresentato da “Elemental”, il viaggio di Loreena McKennitt prosegue con questo “Parallel Dreams”, terzo inciso della cantante che tuttavia possiamo considerare come il suo primo vero e proprio album. Se nell'album d'esordio trovava spazio una reinterpretazione di canzoni della tradizione folk celtica e nel successivo “To Drive The Cold Winter Away” una riproposizione di canzoni delle festività, è con questo “Parallel Dreams” che Loreena, finalmente, partecipa attivamente alla propria musica. Anche i testi, nonostante permanga una forte influenza dettata dall’antica letteratura, sono scritti per la maggior parte dalla cantautrice canadese.

Un “debutto” compositivo che arriva con quattro anni di ritardo rispetto all’effettivo debutto discografico ha tuttavia dei vantaggi: l’impressione generale è quella di trovarsi di fronte ad un’artista ancora acerba, eppure in un certo senso consapevole, come un motore ben rodato che è pronto ad esprimere tutta la sua potenzialità. Il primo passo ufficiale del viaggio non può che essere consumato in Irlanda: ci troviamo, quindi, in presenza di un disco che conserva una forte connotazione celtica, mostrando molto timidamente quelle aperture ad altre forme di folklore che diventeranno una caratteristica portante dei futuri incisi della Musa. E’ una caratteristica, questa, che si avverte nell’incipit di “Samain Night” ed ancora più fortemente in “Beltane ‘Huron’ Fire Dance”, ispirata ai nativi americani.

Il titolo dell’album, inoltre, non è assolutamente casuale: mai come in questo lavoro le melodie di Loreena sono rarefatte, impalpabili e inafferrabili, come solo i migliori sogni sanno essere. Attraversare il sogno di Loreena si rivela ugualmente piacevole sia che si tratti di una lenta ballata per arpa (“Moon Cradle”), sia di flauti che trascinano verso orizzonti lontani (“Breaking The Silence”), sia nel dare vita in musica alla figura Dickensioniana per eccellenza del povero orfanello sperduto nella gelida sera della vigilia del Natale (“Dicken’s Dublin”, a mio avviso il capolavoro dell’album). “Annachie Gordon”, poi, è la capostipite di quella che diventerà presto una consuetudine di ogni futura opera della Nostra, ovvero la lunga suite che racconta il poema di antiche figure, più o meno note, della tradizione anglosassone. Un’altra caratteristica di queste suite è che solo Loreena sa scrivere canzoni che dicono tutto in un minuto e mezzo, e si protraggono per altri sette minuti senza stancare o lasciar trapelare il classico senso di noia da ripetitività (e questo, signori, è sintomo di genio).

Ci troviamo di fronte ad un disco che è un inizio, sebbene non sia un vero e proprio inizio. Come tale, quindi, è anche normale trovarci dei momenti morti, se non deludenti (“Standing Stones” su tutti). Eppure, il senso generale di questo inciso è più che positivo: il classico album che lascia un buon sapore in bocca... E dove la musica ancora non riesce ad arrivare, è l’unicità della voce di Loreena a colmare questa lacuna.



01. Samain Night
02. Moon Cradle
03. Huron ‘Beltane’ Fire Dance
04. Annachie Gordon
05. Standing Stones
06. Diken’s Dublin (The Palace)
07. Breaking The Silence
08. Ancient Pines

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