Cult Of Luna
Vertikal

2013, Density Records
Sludge/Post Metal

Un nuovo capitolo nell'ottima discografia di un gruppo sempre in grado di regalare forti emozioni
Recensione di Marco Mazza - Pubblicata in data: 07/02/13

I Cult Of Luna hanno saputo con il tempo ritagliarsi uno spazio sempre più importate nel panorama post-metal sviluppatosi dopo l’avvento dei padri del movimento, Neurosis ed Isis, raggiungendo i massimi esponenti di uno dei generi che più ha avuto da offrire negli ultimi anni in termini di innovazione. Ad ormai ben cinque anni di distanza dalla loro precedente release, i Cult of Luna tornano a pubblicare un nuovo album: “Vertikal”. Il nuovo lavoro è per forza di cose attesissimo e, vuoi per gli ottimi precedenti, vuoi per la lunga attesa, responsabile della creazione di grandi aspettative nel pubblico.
 
Con “Vertikal” gli svedesi continuano sulla formula del concept intrapresa già con il precedente “Eternal Kingdom”. Se nel disco del 2008 il tutto era ispirato dagli scritti ritrovati nel diario di un paziente di un ospedale psichiatrico, il soggetto arriva ora da un campo completamente diverso: il cinema. La musa è “Metropolis”, il capolavoro di fantascienza di Fritz Lang del 1927. “Metropolis” racconta di una megalopoli del futuro, in cui la società è divisa in due, pochi padroni che vivono in alti e lussuosi grattacieli e operai che lavorano come schiavi nei sotterranei. Questi saranno incitati alla rivolta da un robot femmineo che riproduce le fattezze di una di loro, la mite e pia Maria. L’automa è opera di uno scienziato al servizio dei padroni che vuole vendicarsi del potente John Fredersen, dominatore della città. La rivolta provoca un'inondazione che colpisce i quartieri operai finché, sollecitato da Maria, Freder, figlio di Fredersen, tenta di salvare la situazione.


In “Vertikal” troviamo tutti i tratti distintivi dei Cult of Luna, inquietudine, angoscia, paura, tutti aspetti che perfettamente si sposano con una pellicola scura ed emozionante come il film tedesco, diventandone la colonna sonora ideale. Rispetto al disco precedente si assiste a qualche cambiamento nel sound per meglio creare l’atmosfera dell’ambiente descritto. Molto più spazio è dato ora all’elettronica, con i sintetizzatori a rendere il tutto più industrial. Nelle varie tracce si assiste spesso a parti di doom metal puro; l’obiettivo è trascinare l’ascoltatore nello scenario fantascientifico immaginato da Lang e, in particolare, nel luogo dove lavorano gli operai: meccanico, scuro, claustrofobico, con freddi e monotoni orologi che scandiscono i tempi di lavoro, un posto dove gli operai stessi diventano robot.
 
L’album inizia con le note della strumentale “The One”, che ci introduce al disumano mondo del sottosuolo: buio e carico di tensione. I sintetizzatori si fanno subito sentire sotto forma di un’alienante sirena che chiama a raccolta i proletari. “I: The Weapon” è uno dei pezzi migliori; è la visione dell’orribile mondo in cui sono costretti a lavorare gli operai. Nel film può essere accostato alla presa di coscienza di Freder, il figlio del potente Fredersen, di una realtà che non credeva possibile. La vista di un terribile incidente sul lavoro che farà molti morti e che segnerà l’inizio del dilemma interno del protagonista. L’atmosfera è tesa, piena di synth e decisamente industrial. L’anima elettronica sottolinea l’aspetto meccanico e robotico del film, mentre le urla di Johannes Persson rendono perfettamente il disagio dei lavoratori per la loro condizione. La successiva “Vicarious Redemption” è la traccia più lunga; nei quasi 19 minuti in cui la composizione si snoda, si parte da una situazione di apparente calma, quasi dark-ambient, su cui si inseriscono riff di chitarra in sottofondo ad aumentare la sensazione di inquietudine. Dopo il sesto minuto i ritmi si alzano e subiscono un’ulteriore accelerata nella seconda metà del brano. A sorpresa assistiamo anche ad un passaggio dubstep a cui seguiranno le chitarre a descrivere la rabbia crescente. Gli ultimi tre minuti sono decisamente doom, con trame ripetitivi e angoscianti. E’ l’incitamento alla ribellione operata da un robot dalle sembianze di Maria, è il tentativo da parte dello scienziato suo creatore di rovesciare il sistema tramite la denuncia delle sue inegualità. La successiva “The Sweep” è una delle tracce più brevi, è straripante di sintetizzatori e distorsioni, è il regno del lusso e del benessere che collassa. Con “Synchronicity” si aggiunge ulteriore pesantezza per mano di un doom opprimente. Viene dipinto lo scenario post-apocalittico della rivolta. La sesta traccia, “Mute Departure”, parte con il ronzio di una sirena su cui si inseriscono le percussioni ed una voce sussurrata, una combinazione capace di incutere paura. L’esplosione arriva con le urla che irrompono dal terzo minuto, in alternanza con le parti sottovoce. Un climax di sicuro effetto che rende “Mute Departure” uno dei pezzi più belli mai scritti dai Cult of Luna. Le chitarre si fanno sentire e si può intuire come rappresentino dell’opera “Metropolis” il lato più umano e emozionale, in contrasto con quello freddo e artificiale reso dai sintetizzatori. In “Mute Departure”, come nelle ultime due tracce, le lyrics passano alla prima persona: sembra essere il punto di vista di Freder che vede un impero sgretolarsi. “Disharmonia” è una mini traccia strumentale di intermezzo, preludio alle due tracce conclusive, “In Awe Of” e “Passing Through”. La prima si sviluppa in un crescendo di disperazione con un finale da pelle d’oca; è l’inevitabile presa di coscienza di ciò che ormai non si può più cambiare: “Acceptance before I return to the stars”. Proprio quest’ultimo verso lascia intendere come i Cult of Luna tentino di descrivere il finale alternativo del film, non quello registrato nella pellicola originale, scritto da Thea von Harbou e in seguito ripudiato da Lang. Il regista austriaco avrebbe voluto vedere i due innamorati Freder e Maria partire su un razzo, mentre la città veniva distrutta dagli sconvolgimenti della ribellione. In quest’ottica può essere inserito anche l’ultimo brano, “Passing Through”, una malinconica traccia attraverso una terra martoriata, una terra che una volta conteneva la fiorente metropoli. Nel finale sembrano risuonare le riflessioni di Freder mentre abbandona per sempre quello che è stata tutta la sua vita fino a quel momento.
 
“Vertikal” risulta essere senza dubbio un album eccellente, arrangiato ottimamente e sicuramente al livello di precedenti come “Eternal Kingdom” o “Somewhere Along The Highway”. Il passaggio da un media all’altro non è facile, ma nonostante questo i Cult of Luna riescono a riportare sostanzialmente intatto il messaggio di “Metropolis”, aggiungendovi drammaticità ed inquietudine. Pur essendo la struttura base delle composizioni volutamente semplice, queste sono ricche di sfumature e dettagli; scelte assolutamente positive, permettono alle tracce di mostarsi incisive e dirette ma comunque interessanti ad ogni nuovo ascolto. L’unica pecca è che forse si sarebbe potuto osare di più con il sound, gli elementi di novità introdotti non sono sufficienti a far salire gli otto svedesi al gradino raggiunto da band come Godflesh, Neurosis o Pelican. Detto questo “Vertikal” aggiunge un nuovo importante capitolo nella già ottima discografia di un gruppo sempre in grado di regalare forti emozioni e capace di produrre senza alcun dubbio grandi lavori.

Con la loro ultima release i Cult of Luna si propongono come uno dei gruppi più importanti della scena post-metal attuale e, dopo l’uscita di scena del 2010, si presentano come i più credibili candidati alla successione di mostri sacri come gli Isis.





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