Bloc Party
Intimacy

2008, Wichita
Indie Rock

Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 08/08/12

Articolo a cura di Paolo Merli
 
Il terzo disco, per una band, è generalmente considerato la prova del 9. Puoi confermare quanto di buono avevi fatto, oppure puoi sbagliare disco e magari condannare per sempre la tua band ad essere semplicemente quelli che “belli i primi, poi si sono persi”. Ma Kele Okereke e soci non ne vogliono sapere di sottostare a questa regola, e decidono di cambiare  pelle, sfornando quello che, più che il terzo disco dei Bloc Party, creatura londinese dedita a sonorità post-punk/new wave di fine '70, è il debutto dei nuovi Bloc Party.

Se da un lato è apprezzabile il desiderio di cambiare del combo londinese, è anche vero che non possiamo soprassedere ai punti deboli di questo lavoro. Le canzoni di "Intimacy" si possono suddividere, grossomodo, in due gruppi: quelle che mantengono in parte un legame con il passato, e quelle intrise della nuova vena elettronica che a quanto pare tanto appassiona la band inglese. Per le prime il problema fondamentale è il lavoro di semplificazione effettuato per quanto concerne la sezione ritmica, da sempre il maggiore punto di forza delle precedenti composizioni. Qui, invece, Matt Tong (soprattutto) e Gordon Moakes sono in gran parte sacrificati, i pattern di basso e batteria sono stati semplificati in favore di un indurimento delle chitarre e di una linearizzazione dei pezzi stessi. Ne risulta una manciata di pezzi, non propriamente esaltanti, specialmente se si considera che vengono dalla stessa penna di ragazzi che hanno scritto "Like Eating Glass" o la mastodontica "Banquet". La nuova strada elettronica intrapresa dai Bloc Party, invece, è con molta probabilità il motivo per cui questo disco non decolla, schiacciato dal peso di influenze troppo ingombranti, che i nostri non sono ancora in grado di incorporare nel loro sound senza che il tutto suoni come una forzatura. Vengono abbandonati gli strumenti tradizionali, si fanno largo beat, campionature, synth, Chemical Brothers. Che a Kele piacessero certe sonorità, e che per certi versi la sua musica fosse adatta ad esserne contaminata, era ormai cosa evidente (numerosissime le opere di remix effettuate sui precedenti dischi ad opera dei più disparati artisti), come è evidente che il risultato non è sempre accettabile, e se possiamo anche chiudere un occhio di fronte a risultati come il singolo "Mercury", che a tratti raggiunge anche il suo scopo, non si può certo dire lo stesso di pezzi come "Ion Square" o "Zephyrus", dove la band dilaga in territori che non le competono, e purtroppo si sente. 

Ora. aspettiamo di vedere come il suono della band londinese si evolverà nel futuro, cercando di capire se l'elettronica sarà la strada definitiva o se avremo un ulteriore change of mind; nell'attesa, però, ci riascoltiamo "Silent Alarm", sperando di non dover dire, una volta di più,  “belli i primi, poi si sono persi”.




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