Report a cura dei nostri inviati: Paola Marzorati, Mia Frabetti, Eleonora Muzzi, Stefano Torretta, Francesco De Sandre, Marco Ferrari.
Certo non è mai semplice raccontare le mille immagini, le mille emozioni ed i mille colori di un festival della portata del Rock In Idro 2014, ma il sorriso stampato con il quale siamo ritornati da Bologna penso sia il giudizio più genuino che possiamo dare. Ed è riavvolgendo il nastro dei ricordi che la redazione di Spaziorock ha provato a rivivere, attraverso le parole, quanto vissuto in questi tre intensi giorni di rock. Buona lettura.
DAY 2
L'apertura del Day 2 del Rock In Idro viene affidata al gruppo austriaco dei Russkaja ed alla loro commistione di metal, folk e polka. Nonostante un set brevissimo a causa di problemi logistici la band riesce a scaldare un pubblico già ampio sfruttando i migliori classici del proprio repertorio. Costumi colorati, attitudine da Armata Rossa e tanta, tanta buona musica anche ballabile..
Non entusiasmano più di tanto gli Snuff: La band inglese, nonostante il posizionamento in bill che li porta a suonare molto presto, ha un discreto pubblico tra i pochi (qualche centinaio di persone) che sono già entrati nell'arena, ma l'esibizione non è delle migliori. I suoni decisamente non all'altezza e setlist ovviamente breve non aiutano quando c'è poco movimento. Un peccato.
La loro presenza in un cartellone per lo più ska- punk , ha giocato un brutto tiro agli You Me At Six, concentrato tutto inglese di pop rock. Dopo la data al Live Forum di Milano, il 15 marzo, ribattezzata dalla band stessa “la migliore di tutto il tour” , la loro apparizione alla seconda giornata del Rock In Idro è invece ricordata come “Il peggior concerto di sempre” su Twitter. La band capitanata da Josh Franceschi ha suonato tutto il proprio set con energia e passione, - iniziando con “Fresh Start Fever”, primo singolo estratto dal loro ultimo album, “Cavalier Youth”, per poi continuare con repentine incursioni nel passato (“Underdog”) e ballad leggere (“Cold Night) - davanti ad un pubblico per lo più inerme che reclamava a gran voce Pennywise, Gogol Bordello e Ska-P. Palloni e qualche bottiglia lanciati sul palco, accompagnati da urla e insulti, ma nonostante tutto gli You Me At Six rispondono bene, cercando di interagire con la folla giocando a pallone sul palco e parlando degli imminenti mondiali di calcio, nel tentativo di volgere la situazione a proprio favore. Pollice in su per gli You Me At Six che hanno completato il loro set con energia ed eleganza, nonostante quest’ultima sia mancata a gran parte del pubblico: forse non siamo ancora pronti per un grande festival con generi diversi come quelli internazionali?
Ci vorranno i Pennywise per ripopolare un’area concerti a dir poco desolante e scatenare l’entusiasta corsa al palco che, alle quattro del pomeriggio, darà finalmente all’Arena Joe Strummer l’aspetto di un vero festival; un liberatorio “fuck the authority” dopo l’altro e l’umore generale si risolleva, e la giornata è salva. Braccia al cielo e grida di approvazione per inni come “My Own Country”, amichevoli scambi di “vaffanculo” tra band e fan accorsi in massa, un veloce ripasso di storia del punk-rock e la strada ai Millencolin è spianata: il pubblico è infine caldo al punto giusto, tenuto in pugno – ancora una volta – dai padri del punk revival anni Novanta. In breve: uno schiaffo in pieno viso a tutti i presenti, e una degna celebrazione delle radici di Rock in Idro.
Scendono il sole e la temperatura sull'Arena Joe Strummer, ma non scende la voglia del pubblico di divertirsi. Dopo tante band con un target più giovane, ci avviciniamo finalmente al clou della giornata: tocca ai Gogol Bordello calcare il palco. La formazione slavo-americana guidata dall'eclettico Eugene Hutz non è nuova ai palchi italiani e c'è una nutrita folla ad aspettarli sotto palco, e le aspettative non vengono deluse: l'energia che arriva al pubblico è incredibile. La band si scatena in un'ora e mezza circa di spettacolo concreto ed energico, serrato dall'inizio alla fine, con una teatralità incredibile. La compattezza dell'esibizione fa capire quanto lo stare on the road per tanto tempo (la band esiste dal 1993) sia a volte un ingrediente fondamentale per la riuscita di un concerto.
Siamo sulla stessa linea, anche se lo stile è completamente differente, per l'esibizione subito successiva, quella degli spagnoli Ska-P. Colonne portanti dello ska punk europeo, sono anch'essi molto attesi e nei pochi minuti di preparazione palco l'attesa inizia a farsi abbastanza frenetica. Quando poi salgono sul palco, nonostante ci sia ancora parecchio fango a terra dopo la pioggia incessante del Venerdì, il pubblico salta tanto che si solleva un polverone ben visibile se si sosta nelle retrovie. Quasi avessero semplicemente spento un generatore elettrico, non appena gli spagnoli attaccano con chitarre e trombe ecco che l'energia ricomincia a scorrere come un fiume in piena. È impossibile rimanere fermi anche solo un momento mentre i brani si susseguono ad una velocità impressionante, quasi senza soluzione di continuità se non un'intro per “Intifada” e “El Vals Del Obrero”, su cui poi si inserisce il pubblico con cori e quant'altro. Una caratteristica particolare dei concerti degli Ska-P è la comparsa di alcuni personaggi che fanno da sketch per il tema della canzone, come il torero su “Verguenza” (dedicata alla controversa tradizione spagnola della Corrida) e il gorilla in tenuta antisommossa di “Romero El Madero”. Va fatto notare che la connotazione politica si fa sentire pesantemente sia nei testi che nelle esibizioni live. Ma anche con questa presenza politica a volte un po' “pesante” che potrebbe non piacere a certi ascoltatori, lo show va avanti e fila liscio come l'olio tra salti, pogo e spesso risate. Perchè non è facile non ridere ascoltando la velocissima strofa di “Cannabis” e i tentativi a volte maldestri di noi italiani che tentiamo di ripeterla. Unica pecca? Non hanno fatto “A La Mierda”.
È effettivamente calata la notte, rimane l'ultimo atto prima di dichiarare la giornata conclusa e andarcene a dormire (o all'aftershow all'Estragon): i Pogues. Passiamo dalla Spagna all'Irlanda per l'esibizione della band che potrebbe essere considerata la genitrice di mostri sacri del punk moderno come i Dropkick Murphys ma che vengono annoverati tra le principali influenze anche da band di ben altro genere, come i Coldplay. È vero che buona parte del pubblico più giovane abbandona l'arena perchè più interessata a gruppi più giovanili come sono stati quelli del pomeriggio e gli Ska-P e che l'età media di quelli che restano si alza nettamente, ma c'è una certa anticipazione per l'esibizione degli irlandesi. E qui arriva il problema: Shane McGowan, il cantante dei The Pogues, è completamente ubriaco. Ma non ubriaco alla Chris Bowes degli Alestorm, che pur essendo sbronzo marcio riesce a suonare per un'ora e più sbagliando qualche nota sulla tastiera ma comunque reggendo lo show più che bene. Qui si parla di ubriaco alla “mi sono dimenticato i testi e biascico qualcosa nel microfono”. Il tutto mentre nessuna luce lo illumina, per cui vederlo è praticamente impossibile a meno di non essere letteralmente sotto al palco. Questo è stato, purtroppo il concerto dei Pogues: una band ben oliata che suona al limite del playback con un cantante che non riesce a starle dietro. Già iniziano con un netto ritardo di quasi mezz'ora sulla tabella di marcia (e l'ordinanza comunale che vuole che tutti i concerti tenuti all'aperto terminino entro e non oltre la mezzanotte rende abbastanza complicato ovviare ad un ritardo del genere), poi suonano per soli 40 minuti e saltano “Thousand Are Sailing”, forse il loro pezzo migliore.
Un finale un po' amaro per chi si stava godendo una giornata al limite del perfetto a partire dal meteo.
DAY 3
Dici Skillet e ricevi (quasi) solo sguardi vacui; nomini il Christian rock, e alla perplessità iniziale si aggiunge una buona dose di diffidenza. Eppure chi li ha già incrociati in quel di Milano lo scorso ottobre lo sa: la band originaria di Memphis, Tennessee, live non sbaglia un colpo. E infatti in patria non ha certo bisogno di inutili presentazioni: slot tanto infelici sarebbero impensabili in America, accettabili solo in Europa, e in ogni caso ancora per poco. È praticamente una certezza, perché a dispetto di un’arena in lenta fase di riempimento e un bilanciamento suoni tutt’altro che ottimale gli Skillet non si risparmiano, e Bologna apprezza eccome: “Sick Of It” e “Monster” sono un successo, la scommessa è vinta. Per chi non cantava già sulle note di “Hero”, un nome da segnare in agenda: se ne parlerà ancora a lungo.
Meno fortunati degli Skillet gli Hawk Eyes, pressoché ignorati dal pubblico riunitosi sotto il palco in attesa degli Extrema. Suoni ancora altalenanti e tempistiche serrate non aiutano gli inglesi a lasciare il segno: un'occasione sprecata.
Se si parla di Metal “made in Italy” non può che venire in mente il nome degli Extrema. La prestazione della thrash metal band milanese ha, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostrato il perché del loro status, dando vita ad uno show che, seppur breve, è stato molto applaudito dagli astanti grazie ad un tasso di adrenalina di livello superiore. Ottima la prestazione di tutta la band che ha investito con ferocia e classe il numeroso pubblico, ma, del resto, i riff assassini di Tommy Massara e la violenza scenica di GL Pedotti sono da anni garanzia di buona musica e divertimento: orgoglio italiano!
Ore 16.30: eccolo, il momento che ci sembrava di aspettare da una vita – almeno da quando “Magic Mountain” è diventato materia di seria dipendenza a SpazioRock e ancora prima, dai tempi in cui Black Stone Cherry e Alter Bridge facevano un sol boccone dei palazzetti di tutta Europa. Quando Chris Robertson ruggisce nel microfono parte la corsa a precipizio verso il pit, ovviamente sgolandosi sui ritornelli di “Me And Mary Jane” e “Blame It On The Boom Boom”, e la vita appare di colpo più bella. Gli unici rimpianti? Una “In My Blood” un po’ sottotono, e un set tanto breve da rasentare l’illegalità. Bologna ne vuole di più, la band anche: “è fantastico essere di nuovo qui”, esclama un incontenibile Ben Wells, “è passato troppo tempo!”. Non potremmo essere più d’accordo: e allora, nell’attesa dell’appuntamento live di ottobre, non ci resta che cullarci nel ricordo di un set al fulmicotone. Una delle migliori band attualmente in circolazione, e non si discute.
Di certo la posizione pomeridiana con un sole alto e forte non sembrava essere il momento ideale per godersi gli Opeth, ma la band svedese, quasi noncurante di quanto li circondava, si è resa responsabile dell'ormai classica prestazione di alto livello. Certo la scelta della scaletta, molto intima e “difficile”, non facilita l’esibizione ad un festival, ma Åkerfeldt e soci hanno classe ed esperienza da vendere e dove non ti colpiscono con la forza, lo fanno con le emozioni. Cambi di tempo, estrema complessità dei brani e passaggi strumentali sono riusciti ugualmente a fare breccia nei gusti di larghe frange del pubblico.
Il pubblico accorso all’Arena Joe Strummer può essere facilmente diviso in due principali categorie: chi era lì per gli Iron Maiden e chi per gli Alter Bridge. E poi ce ne è una terza: chi ha magari percorso chilometri e chilomerti di asfalto per le Vergini di ferro (e a ragione) ma non ha potuto fare a meno di lasciarsi incantare dal solido rock degli Alter Bridge. In una giornata calda in cui le parole più pronunciate sono state “Maiden!Maiden!” ,- alle 14, appena aperti i cancelli, così come a concerto terminato-, la band di Myles Kennedy e Mark Tremonti ha fatto l’impossibile: far riecheggiare tutta l’arena con unico grido: “Alter bridge! Alter bridge!”. Un set di tredici canzoni per coprire tutti e quattro gli album e una sorpresa ben gradita: “Fortress”, traccia conclusiva dell’ultimo album in studio, un’ epopea di sette minuti e lunghi assoli, suonata in Italia per la prima volta dopo essere mancata al concerto del 12 novembre tenutosi a Milano. L’energia, capace di scuotere tutta Bologna, la potenza della voce e il fuoco vivo degli assoli che ha incendiato il Rock In Idro sono gli stessi che hanno fin da sempre cementato quel legame indissolubile fra l’Italia e gli Alter Bridge; ma c’è qualcosa di diverso. Qualche sorriso in più , carico di emozione e riconoscenza, sui visi di Myles, Brian, Scott e sulle facce buffe di Tremonti, quelle smorfie che fa mentre suona, come se stesse cercando di infilarci tutto sé stesso in quell’assolo. Emozione per un grande traguardo : “Suonare sullo stesso palco degli Iron Maiden. Chi non ha mai sognato una cosa del genere suonando nella proprio cameretta?”, dice Myles nel micorofono. E la consapevolezza di aver conquistato tutto il pubblico dell’Arena in fervente attesa per i Maiden. Vittoria schiacciante!
Degli Iron Maiden abbiamo già scritto nel report interamente dedicato a loro, ma non possiamo, e non vogliamo, sprecare l’occasione per ricordare una prestazione, che seppur minata da suoni non adatti e da problemi fisici, evidenzia, per l’ennesima volta, il perché siano la miglior band heavy metal al mondo in sede live… e scusate se è poco.
DAY 4
I primi ospiti internazionali della giornata sono i We Are Scientists. La formazione Indie californiana, impegnata in un lungo tour europeo che culminerà con l’apparizione a Londra, inizia ad attirare anche gli ospiti più girovaghi dell’Arena Joe Strummer.
Con il sole in faccia salgono sul palco i musicisti neopsichedelici: The Brian Jonestown Massacre si distinguono per la grande presenza scenica impreziosita da qualche raro siparietto. Visti dalla collinetta dell’arena sembrano un’allegra famiglia di artisti: attivi da 1990, gli artisti al servizio del particolare Anton Newcombe hanno all’attivo ben 12 dischi.
L’esibizione dei Fratellis, per quanto breve, non entrerà di certo negli annali dei live: i paladini scozzesi, complice la luce accecante del primo pomeriggio, non riescono a creare una apprezzabile alchimia con il pubblico nella riproposizione dell’ultimo album “We Need Medicine”, recensito positivamente sulle nostre pagine.
Ad attendere il folletto di Liverpool sotto al palco sono già in molti: è con la sua esibizione che l’asticella della qualità. E soprattutto dei volumi, si innalza. Miles Kane suona e canta, e con una camicia caratteristica ed alcune pose plastiche ricorda paurosamente Liam Gallagher: sotto al palco c’è chi balla e salta al ritmo dei ritornelli incalzanti più volte rimbalzati dalle stazioni radiofoniche: da “Don’t Forget Who You Are” a “Taking Over”.
Il 1998 non solo è l’anno di uscita di “This Is My Truth Tell Me Yours”, ma rappresenta anche l’ultima apparizione dei Manic Street Preachers in Italia. Questo viene subito sottolineato dal frontman James Dean Bradfield, che guida la band per quasi un’ora di salti e vecchi ricordi. La bandiera gallese è statica sul palco mentre la band di Blackwood, dinamica e d’ottimo impatto, performa il proprio Brit Pop – apertamente opposto a quello più classico degli Stone Roses – suonando i brani del nuovo album “Futurology” in arrivo a inizio Luglio. “Postcards From A Young Man” e la celebre “Autumnsong” rimangono escluse dalla scaletta, ma gli applausi alla fine dell’esibizione sono comunque meritati.
Performance da urlo per gli open act dei Muse nelle tappe italiane della scorsa estate. Dopo averli intervistati, abbiamo il piacere di vederli dal vivo alla luce del sole: i Biffy Clyro, gruppo rivelazione del 2013 che in Italia gode di una risposta incredibile da parte dei fans, confermano il notevole stato di grazia con un’ora di tagliente Alternative Rock fresco, frizzante e personalizzato. C’è chi è arrivato da lontano solo per loro: i ragazzi scozzesi sparano a salve sulla folla il loro doppio disco “Opposites”, caldamente accolto e consigliato anche da SpazioRock, con un’energia e un coinvolgimento che ha quasi raggiunto quello generato dai Queens Of The Stone Age.
La storia sul palco di Bologna incarnata dai Pixies di Black Francis è finalmente realtà. Si potrebbe descrivere la performance cominciando dalla fine, da quando Francis, Joey Santiago, David Lovering e l’entusiasta Paz Lenchantin raccolgono insieme gli scroscianti applausi del pubblico. Largo spazio è stato dedicato ai brani storici della formazione di Boston. Per molti, anche per Cobain stesso, i Pixies sono i padrini del grunge: l’esibizione, perfetta acusticamente e visivamente, ha emozionato e commosso. La cartolina da conservare gelosamente è stata scattata dal punto più rialzato della collinetta del Parco Nord: l’ultimo sospiro di Paz Lenchantin al termine di “Where Is My Mind”, con il pubblico silente, illuminato dalle luci bianche, paralizzato in un freddo abbraccio di riconoscimento e rispetto per uno degli inni della musica Alternative.
Cinque minuti dopo le 22:00, puntualissimi come un orologio svizzero, i Queens of the Stone Age hanno fatto la loro comparsa sul palco per chiudere con la loro esibizione l'ultima giornata dell'edizione 2014 del Rock In Idro. Forti di un settaggio degli strumenti quasi perfetto, e di un impianto luci personale di tutto rispetto, capace di accendere la notte bolognese con bordate di colori, Josh Homme e soci non hanno lesinato energie investendo l'ampio pubblico presente con una selezione dei loro brani più amati dal pubblico: "You Think I Ain’t Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire" e "No One Knows" ad inizio concerto hanno letteralmente sconquassato i fan presenti, settando il tono di tutti i brani a seguire. Live set non eccessivamente lungo (solo un'ora ed un quarto, per il disappunto di molti dei presenti), caratterizzato da brani provenienti dalla produzione più recente della band (tralasciando però "Era Vulgaris", presente con un solo estratto): pochissime parole e tantissimo spazio lasciato alla musica, il vero motore trainante della formazione californiana, ed il pubblico ha apprezzato, sostenendo a gran voce i propri beniamini lungo la quasi totalità del concerto. La chiusura, affidata a "A Song For The Dead", è la degna conclusione di un'esibizione e di un'edizione del Rock In Idro che ha sicuramente rivelato interessanti band più o meno esordienti, e che ha riconfermato i Queens of the Stone Age come una delle band più carismatiche ed interessanti presenti nell'attuale panorama musicale internazionale.
Spesso negli ultimi anni è stato semplice criticare manifestazioni di questo calibro per chiare mancanze organizzative e per disfunzioni tecniche. L’edizione 2014 di Rock In Idro, nonostante la cancellazione della prima giornata, quando il temporale ha compromesso l’esibizione di FatBoy Slim e compagni, verrà ricordata per l’impeccabile puntualità e l’ottima pianificazione, come se il modello dei festival europei fosse stato applicato in modo vincente. Per la coerente proposizione dei generi delle tre giornate “Rock” e il rispetto degli orari annunciati, Rock In Idro 2014 ha sorpreso piacevolmente i molti partecipanti che hanno potuto assistere a performace di buon livello tra vecchio e nuovo secolo.