Primi di marzo a Torino: crudeli disegni meteorologici s'affaccendano a far convinta la povera gente del fatto che la primavera è ancora più che lontana, che gli sprazzi di sole di fine febbraio erano soltanto un'infingarda illusione. La pioggia perdura da tre-quattro giorni, battente, impietosa, infittendo il grigiore di una città già di per sé tutt'altro che sgargiante, rendendo le vie del centro un silenzioso simulacro di città fantasma. Necessaria, come l'aria, qualcosa che scaldi le tempra e il cuore, un'ultima sigaretta, un bicchiere di vino rosso da sorseggiare, oppure, meglio ancora, le vibranti note di una chitarra classica.
Matt Elliott giunge così, come uno stralunato messo celeste dall'apparenza squiternata e casual (visto mai un cantautore folk vestito con braghe larghe sintetiche quasi da b-boy?), con la sua chitarra, con un flauto dolce da vecchi ricordi delle scuole medie, con quella sua schiera di pedali dotata di più lucine di un albero di Natale. A raccontare (al Blah Blah che già lo ospitò un paio d'anni fa) i suoi struggimenti, con confidenzialità e (auto)ironia ma anche con una certa timidezza, esorcizzando le sue tristi storie di vita vera adesso sussurrando a denti stretti su delicati arpeggi, con gli occhi umettati di lacrime, adesso urlando (sgraziatamente a volte, ma va bene anche così) e picchiando le corde con liberatoria violenza.
Gli astanti (un centinaio) vengono così avvolti da un racconto colmo di fiammeggianti passioni, sciorinato tutto d'un fiato tra le note di suite lunghe diciassette minuti (la prima in scaletta, la meravigliosa "The Right To Cry") o di medley contenenti, in fusioni incredibilmente aggraziate, nuovi pezzi dall'andamento mesto e cimiteriale e cover di vecchi classici blues ("Zugzwang" che si fonde in "I Put A Spell On You"). Alcuni seduti, alcuni in una sorta d'estasi sensoriale, teste ondeggianti e occhi chiusi. Tutti per qualche motivo sbalorditi: parecchi per le innumerevoli emozioni che si fanno palpabili nella piccola sala, per gli splendidi e inquietanti fischiettii o per le ficcanti note di flauto che Elliott sparge nei suoi brani, come per ricreare i venti e la fauna di un incubo notturno; altri, quelli senza cuore, a scioccarsi per vari inusuali tecnicismi, come il wah pluggato a una chitarra classica, o l'uso senza alcuna sbavatura e senza nessuna perdita di battuta di quattro-cinque tracce in simultanea su loop machine (il passato da giocoliere dei sampler, per la Third Eye Foundation, aiuta eccome). Piacevoli sorprese completano la scaletta: un'irriconoscibile rivisitazione apocalittica della celebre "Bang Bang" di Nancy Sinatra, un balbettante tributo al nostro idioma con la poesia anarchica de "Il Galeone", una splendida versione in slow motion della colonna sonora di Pulp Fiction (corredata da una chiosa contro i tanti idolatranti fan di Tarantino).
In una performance del tutto priva di sbavature, le uniche note stonate saranno -fortunatamente- soltanto tecniche. L'acustica del locale (ma anche l'assenza di un qualsiasi tecnico del suono) rende troppe delle tracce in loop oltremodo rimbombanti, e altre quasi del tutto impercettibili: gran parte delle plettrate veloci sugli ultimi tasti si perdono praticamente nel nulla, inghiottite dagli echi e dai riverberi degli accordi. Nulla, comunque, che possa allentare per più di un istante l'intimo collegamento emotivo con il buon Matt; nulla che possa incrinare la perfezione di una serata magica.
Setlist:
The Right To Cry
Dust Flesh And Bones
Zugzwang
I Put A Spell On You (cover)
The Kursk
Bang Bang (cover)
Also Ran
Il galeone (cover)
Pulp Fiction theme (cover)