Thrashfest Classics Tour 2011
14/12/11 - Estragon, Bologna


Articolo a cura di Eleonora Muzzi
È una gelida serata invernale, la nebbia rende l'atmosfera ancor più cupa e decisamente poco piacevole, ma le condizioni meteorologiche avverse o il freddo non sono abbastanza per fermare la folla di metallari giunti questa sera a Bologna per assistere alla data italiana di un tour unico nel suo genere (per ora). Stiamo parlando del Thrashfest Classics Tour 2011, kermesse che raggruppa cinque band storiche del thrash metal mondiale; dall'Australia al Brasile, quattro nazioni (le altre due sono Germania e Stati Uniti), cinque modi di suonare lo stesso genere si alternano sul palco, dalla carica destabilizzante dei Mortal Sin alla furia cieca degli Exodus. È inutile dire che il variegato pubblico, composto sia da ragazzi che da persone che hanno già salutato l'adolescenza da parecchie lune (e tra cui riusciamo a distinguere alcuni elementi eccellenti, come i membri dei National Suicide, thrash metal band nostrana), è in letteralmente fiamme, nonostante l'atmosfera all'interno del locale non sia altrettanto calda. In molti tengono addosso le giacche pesanti, poiché il freddo si insinua anche all'interno dell'Estragon. Ciononostante, non è il caso di parlare di un pubblico poco ricettivo.

Le danze le aprono i Mortal Sin, poco dopo l'effettiva entrata del pubblico nel locale. La fila è talmente lunga che la maggior parte degli avventori è ancora impaziente in attesa di fare il proprio ingresso quando i primi riff iniziano a uscire dagli amplificatori. Non appena riusciamo a mettere piede all'interno, è palese che la band australiana ha carica da vendere. In maniera più che consona alla serata, il quintetto scatena tutta la sua potenza in poco più di mezzora di puro thrash old-school degno dei migliori anni 80, quando il genere spopolava in tutti gli angoli del globo terracqueo. Dal nostro punto di osservazione a metà della sala possiamo notare che nelle prime file c'è già molto movimento, molto più che quello che si vede durante l'esibizionee delle band di apertura di un concerto medio. Dotati di carisma da vendere e forti di una line-up rinnovata dopo la reunion di qualche anno fa che sprizza energia da ogni borchia, i Nostri riescono ad accendere le braci di quello che entro poco diventerà un pubblico più che ben disposto nei confronti dei musicisti che si susseguiranno sul palco nelle prossime ore. Una buona dose di umorismo, oltretutto, rende la band ancor più simpatica, e dispiace che il tempo a loro disposizione finisca così presto.

Dopo circa una ventina di minuti, sfruttati per una birra o un panino o anche solo per una boccata d'aria, salgono sul palco gli statunitensi Heathen, anche loro riformatisi dopo una decina d'anni di stop e con una line-up rinnovata. L'inizio è travolgente: carica e dotata di una forte presenza scenica, benché un po' statica anche per via del palco abbastanza ridotto, la band californiana tira fuori dal cilindro una performance che dalle prime tre/quattro canzoni può sembrare idilliaca, ma che purtroppo cala sul finale. Dopo tre settimane in giro, il cantante David White accusa una certa stanchezza e un certo malessere e la resa della formazione crolla. Gli Heathen paiono fermarsi sul posto, continuando a suonare per inerzia giusto per portare a termine la setlist. Una parte del pubblico sembra avvertire la sofferenza della band e cerca di incitarli e supportarli, ma per quanto invochino i propri beniamini non riescono a risollevare le sorti di uno show che, partito in quarta, rallenta sempre più a mano a mano che le canzoni scorrono. Parziale delusione quindi, benché non ce la sentiamo di bocciare completamente lo show (per esperienze pregresse, sappiamo che gli Heathen possono fare molto di meglio). La colpa, se di essa si deve parlare, è sicuramente da attribuire alla stanchezza; tour del genere non sono facili per nessuno, neanche per chi ha quasi trent'anni di esperienza alle spalle.

Tocca ora ai tedeschi Destruction, tra i pionieri del thrash teutonico. Il teschio, loro simbolo praticamente sin dall'inizio, troneggia sul backdrop montato dietro la batteria mentre, a ritmo di un brano di musica classica che ci è risultato impossibile identificare, i tre salgono sul palco. Solo a vedere i propri beniamini sullo stage, la gente inizia a muoversi e a gridare. Anch'esso ad un passo dal trentennale di carriera, il trio sfodera una setlist composta solo ed esclusivamente di grandi classici provenienti dagli album usciti negli anni 80, che il pubblico apprezza molto più di quanto ci si possa aspettare. Benché i Nostri abbiano rilasciato un album giusto pochi mesi fa, ciò che è uscito dopo gli anni 90 non viene nemmeno sfiorato, e lo stesso lo show ne beneficia. L'attitudine hardcore punk della band si fa sentire e prende a schiaffi la gente a suon di grida acute e riff di chitarra follemente veloci, mentre il nuovo batterista, aggiuntosi alla band pochissimo tempo fa, dà sfoggio della propria perizia dietro le pelli, sostenendo Shmier e Sifringer alla perfezione. Il pubblico è ebbro di soddisfazione per quello che ci sentiamo di definire uno show impeccabile, degno di professionisti che calcano i palchi di tutto il mondo da così tanto tempo. Il mosh inizia a farsi violento tra le prime file, al punto che volano anche un paio di t-shirt (supponiamo strappate via al proprietario) prima che il set volga al termine, dopo 45 minuti di trionfale old school thrash.

Giunge quindi il turno dei Sepultura e di vedere come se la cava il giovanissimo Eloy Casagrande. Appena ventenne, il nuovo batterista, che potrebbe essere il figlio di uno qualunque degli altri componenti della band, si è aggiunto alla formazione brasiliana appena un mese fa, proprio prima di partire per questo tour. Dobbiamo dire che dietro le pelli, il Nostro non dimostra affatto la sua età anagrafica. A partire dalle primissime battute si nota come la band, nonostante i tour di questo genere siano estenuanti, non perda un colpo: forti di una forma smagliante, i quattro si gettano a capofitto in un'ora di brani classici, esattamente come i colleghi Destruction, andando a rispolverare brani finora mai eseguiti. A partire dal gigantesco Green, i Sepultura tengono magnificamente il palco, incantando la folla di fronte a loro. Tra le band più discusse degli ultimi anni per via degli screzi con i fratelli Cavalera prima e del netto cambio di genere non propriamente condiviso dai fan della prima ora, i brasiliani dimostrano che invece sanno ancora come si suona dal vivo. C'è chi si guarda perplesso attorno a noi, domandandosi se non fosse possibile un sound del genere anche su CD; c'è anche chi, con malcelato disprezzo, rifiuta di accettare che sul palco si sta tenendo un concerto di tutto rispetto, e insulta la band, benché non possa essere sentito. Forte di soli brani storici, i più recenti estratti da “Chaos A.D.”, la setlist farebbe impallidire chiunque, soprattutto quando i Sepultura chiamano sul palco i batteristi di tutte le band della bill per l'esecuzione di “Kaiowas”, che si trasforma in una jam session con tutti crismi, per non parlare di “Refuse/Resist” eseguita assieme a Gary Holt dei colleghi Exodus. Chiude “Arise”, durante la quale il pubblico presta la propria voce per un coro quasi assordante.

Tocca quindi all'ultima band in programma, ovvero gli americani Exodus, co-headliner del festival. Inutile tessere le lodi di una di quelle realtà musicali che hanno segnato la storia di un genere, molte parole sono state spese per descrivere una delle più longeve formazioni (sebbene dei membri originali rimanga il solo Holt) che questo genere abbia potuto vantare. Il combo californiano sale sul palco a passo di carica, pronto a rigurgitare violenza e brutalità sul pubblico che attente impaziente di potersi scatenare a ritmo di classici immortali provenienti da “Bonded By Blood” o da “Pleasure Of The Flesh” e altri grandi classici. Inutile dire che, per l'ora che hanno a disposizione, gli Exodus si riconfermano tra le migliori formazioni live del pianeta, forti, carismatici, carichi e capaci di trasmettere emozioni a tutto il pubblico sottostante. A partire da Holt, con la sua mania di passeggiare per il palco come un maratoneta (chi lo ha visto all'opera sui palchi più grandi sarà a conoscenza della sua capacità di percorre interi chilometri) per finire con Dukes, che, in splendida forma, grida a pieni polmoni nel microfono come se non ci fosse domani. Il pubblico è in delirio, non si conta chi riesce a lanciarsi in una passeggiatina in crowd surfing e deve essere recuperato dalla security prima che venga lanciato di forza nell'angusto spazio tra il palco e la prima fila. Uno show da manuale, senza sbavature, che lascia tutti contenti e soddisfatti, anche chi era rimasto con l'amaro in bocca dopo i Sepultura (sempre che ci sia stato qualcuno in queste condizioni).

Si chiude così questa edizione del Thrashfest, che ha portato in giro per l'Europa alcune storiche band che hanno dimostrato di saper ancora suonare e come i grandi classici non finiscano mai nel dimenticatoio. C'è chi è visibilmente appesantito da anni e anni di vita on the road, chi ha perso qualche capello e ha dovuto rinunciare alla folta chioma che da sempre contraddistingue il metal e chi ha acquisito nuova linfa vitale tramite nuovi membri nelle proprie fila, ma tutti sanno ancora come si suona thrash alla vecchia maniera. Ovvero con rabbia, velocità e brutalità e questa serata ne è l'esempio lampante. Non ci resta che attendere il prossimo anno per una nuova edizione di questo mini-festival itinerante e aspettare nuove sorprese.


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