Opeth - Pale Communion, Europe 2014
03/11/14 - Alcatraz, Milano


Articolo a cura di Stefano Risso

Gli Opeth nel nostro paese, e a Milano in particolare, non sono certo una rarità. A partire dal 1996 di spalla ai Cradle of Filth, i nostri hanno fatto in tempo a farsi ascoltare da quasi due generazioni di pubblico, aumentando il proprio seguito anno dopo anno. Non deve stupire quindi la lunghissima coda formatasi già prima dell’apertura dei cancelli, nonostante gli svedesi siano passati a Bologna lo scorso giugno per il Rock in Idro, è al chiuso che gli Opeth trovano la dimensione più congeniale, in un ambiente più raccolto e intimo.

Con un quarto d’ora di anticipo sulla tabella di marcia, ecco apparire piano piano gli Alcest, chiamati a servire il più classico degli appetizer in attesa della portata principale. Che dire, la band francese si è resa protagonista di una prova di grande valore, pacata, riflessiva, emozionante, proprio quello che ci si aspetterebbe da Neige e compagni. Un’esibizione dai ritmi dilatati, in cui le massime concessioni allo spettacolo sono state quale che sorriso, un paio di pollici alzati e un grazie sussurato al microfono, insomma un atteggiamento perfettamente coeso con la musica proposta. Piccoli problemi di audio a parte (spesso penalizzata la voce del frontman), siamo certi che anche chi non avesse mai sentito parlare degli Alcest non avrà certo disdegnato la mezz’ora abbondante, conclusa così come era iniziata, con i membri che con una semplice fierezza abbandonano silenziosamente  il palco ad uno ad uno, lasciando al chitarrista Zero il saluto finale, un elegante “au revoir” accennato con la mano. Per la serie: come rapire il pubblico senza neanche sudare.

 

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Tutt’altro approccio invece quello degli Opeth, che alle 20.50 prendono possesso dell’Alcatraz (versione palco A), molto caldi, diretti, decisamente più empatici. Senza giri di parole, uno dei più bei concerti degli svedesi che ci sia capitato di vedere. Al netto di esibizioni all’aperto nei festival estivi, dove le ore pomeridiane non riescono a valorizzare i nostri (anche se il crepuscolo del Gods of Metal del 2006 non fu niente male), aspettavamo gli svedesi al varco. Il concerto del 2011 (qui il report) aveva lasciato qualche perplessità. Eravamo in piena era “diniego metal” da parte di Akerfeldt, una scaletta fin troppo morbida e una conduzione troppo lenta dello show non ci aveva soddisfatto totalmente. Possiamo dire che con la prova di ieri sera gli Opeth si sono fatti decisamente perdonare. Una performance al limite della perfezione, condotta con grinta, con trasporto, non rinunciando alle battute ma senza esagerare e presentando una scaletta in cui, “Orchid” a parte, sono stati omaggiati tutti gli album degli svedesi.

Due ore e un quarto circa di concerto in cui i nostri hanno dimostrato ancora una volta quanto ampio sia il proprio bagaglio espressivo, non che non ne fossimo al corrente da anni, ma quando lo si ritrova davanti a pochi metri di distanza si rimane sempre impressionati. Gran merito infatti alla scelta della tracklist, che non si è soffermata troppo sull’ultimo album “Pale Communion”, scegliendo i brani più “snelli” da riprodurre, ovvero "Eternal Rains Will Come", "Cusp of Eternity" ed "Elysian Woes", ma anzi ha volato ad uccello lungo la carriera pluriventennale della band. Il risultato è stato decisamente appagante, con continui cambi di regime passando dal cupo growl di Akerfeldt e dai chitarroni ribassati, a delicati e armonici arpeggi nel giro di pochi minuti. Il tutto supportato da un ritmo finalmente più incalzante. Ovviamente i nostri non si sono trasformati in Slayer o chi altro, diciamo che la voglia di intrattenere il pubblico da parte di Akerfeldt non ha preso troppo piede, risultando così funzionale allo show, quel tanto da non far calare la tensione. Non sono mancati i soliti riferimenti al prog italiano, a Eros Ramazzotti e Gianna Nannini, al vino e al cibo italiano (tanto da chiederci come possiamo rimanere in forma con tutto il buon cibo a disposizione), come anche la presentazione dei vari membri, ma fortuamente con una verve più asciutta, senza rinunciare alla classica simpatia del frontman. Anzi due inconvenienti tecnici durante l’esibizione hanno dato modo a Mikael di intonare le prime strofe di “Harvest” e “Face Of Melinda” facendole poi cantare dal pubblico (davvero una bella trovata estemporanea) e di accennare una piccola improvvisazione, mentre il roadie si preoccupava di sistemare la postazione del batterista Axenrot.

 

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Ecco se dovessimo trovare un neo alla serata sono stati forse i problemi tecnici accorsi alla batteria e a Fredrik Akesson (costretto a sostituire un paio di volte la chitarra nel mezzo di un brano), problematiche che a detta di Akerfledt sono state una piaga dall’inizio del tour, trovando un nuovo pretesto per farci una battuta. A parte questo (e una piccola stecca di Akesson sul primo assolo della serata durante "Eternal Rains Will Come") bisogna solo applaudire gli Opeth per quanto offerto, sia a livello di scaletta, che sicuramente avrà accontentato tutti i fan, sia a livello di suoni (dalla nostra postazione centrale sembrava quasi di ascoltare un live su disco) e soprattutto come coinvolgimento, senza mai risparmiarsi e mantenendo un ritmo sufficientemente incalzante. Sono passate poche ore dalla terremotante conclusiva “Deliverance”, ma non vediamo già l’ora del prossimo concerto.




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