Siamo rimasti totalmente folgorati dalla band di Manchester: due EP fenomenali, con l’ultimo “Connla’s Well” che tinteggia di grigio lo sfondo della nostra intervista ai Quattro, catturati nel bel mezzo di un colossale tour in giro per l’Europa, con uno stop (attesissimo) al Covo di Bologna. I Maruja ci raccontano così le fondamenta e l’evoluzione del loro progetto, testimoniandoci quanto l’amore per la musica e la resilienza li abbiano spinti ad arrivare fino a qui da indipendenti.

Ciao ragazzi e benvenuti su SpazioRock! Come state? Il vostro EP “Connla’s Well” è uscito da qualche mese e sta riscuotendo un grande successo (anche a noi è piaciuto parecchio), come vi sentite a riguardo?

Siamo veramente felici. Ci sentiamo al settimo cielo per la gioia con cui è stato accolto l’EP. Ovviamente abbiamo acquisito un bel po’ di notorietà grazie al nostro primo lavoro, quindi è stata una specie di sfida il voler ricreare qualcosa di tanto grandioso come è stato “Knocknarea”. Quindi sì, sento che con “Connla’s Well” siamo riusciti nell’intento di posizionarci sullo stesso livello.
Per certi versi, in termini sonori abbiamo spinto i nostri confini ancor più in là. A livello lirico credo che ci sia una maggiore profondità in quest’ultimo EP. Ma, in generale, siamo davvero contenti di poter viaggiare, portare in tour questi due lavori e percepire un tale riscontro positivo in tutto il mondo.

Siete partiti per un lunghissimo tour tra Europa e Regno Unito e, finalmente, avete suonato anche in Italia per una data unica al Covo di Bologna: quali sono le vostre emozioni? Cosa si prova ad aver un calendario così ricco di date dopo soli due EP pubblicati?

Al momento siamo a metà tour e lo stiamo amando. Amiamo fare quello che ci piace di più, ossia suonare davanti ad un pubblico così bello e pieno di passione. Volevamo visitare ed esibirci in tanti di questi posti e avere la possibilità di farlo, condensando il tutto in quest’anno, è stato fantastico.
L’Italia in particolare, eravamo emozionatissimi di poterci suonare, considerando il supporto che ci dà da qualche anno. Quello di Bologna è stato uno show incredibile e tutti sono letteralmente impazziti. Ci piacerebbe ritornare, senza dubbio.

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Knocknarea” e “Connla’s Well” sembrano tasselli complementari, uniti a disegnare un conturbante viaggio in una burrasca di sentimenti decisamente complessi da affrontare: il primo è più arioso, lascia gran spazio alle riflessioni post-rock (la combo “Blind Spot”- “The Tinker”), mentre il secondo è più serrato, sembra addentrarsi ancor di più nella tempesta, diventando ancor più introspettivo e diretto. Abbiamo inquadrato correttamente questo cambio d’atmosfera e, se sì, era l’effetto che vi aspettavate di suscitare nell’ascoltatore?

Hai centrato in pieno il percorso continuativo disegnato dai due lavori. Sono stati composti più o meno durante lo stesso periodo, nonostante siano stati pubblicati a distanza di un anno, e sono un po’ lo specchio delle nostre emozioni al momento della scrittura. È corretto quello che dici riguardo al modo in cui si presentano: il primo nel suo essere più strumentale e spazioso, il successore nel suo essere più diretto, andando ad indagare più nel particolare gli argomenti tirati su in “Knocknarea”, esplicandone i dettagli e analizzando quel punto di vista. Credo che un sacco di persone abbiano percepito questo cambiamento, il che è splendido. E suonare i pezzi live insieme conferisce al tutto più completezza. Speriamo che anche l’ascoltatore riesca ad assimilarlo.

Abbiamo percepito questo tumulto crescente anche nella transizione che collega “The Invisible Man” a “Zeitgeist”: la prima cauta nel crescere sempre di più, mano a mano che lo spoken word di Harry Wilkinson si fa più spiritato assieme alla strumentale, la seconda prorompente fin dall’inizio, quasi spaventosa nella sua brutalità e nel suo impatto post-punk duro e puro. Questo “distacco” sonoro tra i due pezzi è dovuto al voler veicolare il più autenticamente possibile le due diverse tematiche che ne governano le lyrics? E a proposito di “The Invisible Man”, quanto è stato difficile dover toccare un argomento spinoso come quello della malattia mentale?

Sebbene ci sia un tema che percorre un po’ tutto “Connla’s Well” ed i suoi testi, principalmente riguardanti la salute mentale e tematiche che ruotano attorno ad essa, “Zeitgeist” e “The Invisible Man” sono due entità separate a livello di contenuto lirico.
“The Invisible Man” è una storia vera che parla di alcune persone che ho conosciuto durante la mia vita, persone che hanno combattuto così tanto con i problemi mentali da finire in ospedale, o addirittura da trascinare le loro persone più care in questa società distopica in cui viviamo.
Molta gente combatte per venire a capo con la realtà della sua esistenza e, pertanto, si imbatte in determinati problemi che affrontano attraverso le loro turbe mentali. “The Invisible Man “ è semplicemente una canzone dedicata alle persone che non vengono viste dalla società e che combattono. Nel Regno Unito, ad esempio, c’è una lista d’attesa dell’NHS per richiedere aiuto in termini di salute mentale ed è lunghissima, si parla di anni. Quindi, anche se dovessi avere dei problemi di questo tipo, non sarai notato per lungo tempo. Dunque il titolo, “l’uomo invisibile”, perchè queste sono le persone che hanno bisogno di aiuto più che mai.
“Zeitgeist” è il termine che indica un po’ un sentimento generale di una generazione o di una società. Potremmo dire che lo Zeitgeist degli anni ’60 è stato Woodstock, ad esempio. Quindi, mentre scrivevo il testo di questo pezzo gli strumenti sembravano così minacciosi e ansiogeni che poteca aver senso solo parlare della società contorta in cui viviamo e di tutte le sue disuguaglianze, pensando a quello che dobbiamo fare per sopravvivere a tutto ciò e, in un certo senso, a come riuscire a superarlo.
Pertanto “Zeitgeist” è più un’osservazione profonda sul momento che stiamo passando e su cosa significhi, per noi, vivere in questo tipo di società. E talvolta ci vuole un punto di vista ironico e sarcastico per affrontare ciò. Per fare un esempio, «I’ve got my suit on, I’m on my best behaviour” è un cenno a tutti quelli che lavorano dalle 9 alle 17, ma che non vogliono realmente essere lì, eppure devono perché non sono loro a prendere decisioni, capisci? Ed è quello lo zeitgeist della nostra generazione: il non avere realmente la possibilità di scegliere. Puoi credere che ci sia, ma la realtà è che non hai così tanta libertà, quindi la gente si sente intrappolata, si sente sopraffatta dall’ansia e gonfia di rabbia. Ed è esattamente quello che la canzone rappresenta. Quindi sì, nonostante ci siano similitudini nel passaggio tra “The Invisible Man” e “Zeitgeist”, in alcuni sensi rimangono due entità separate.

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Il vostro sound è dettagliato ed incredibilmente atmosferico, probabilmente unico nel suo genere. Oltre al merito che va attribuito alla totalità della vostra resa strumentale, gran parte di questo va sicuramente dato al sassofono, un elemento secondo me imprescindibile per i Maruja: duttile, capace di modellarsi e di modellare, di generare luce (Resisting Resistance”) o di assecondare il buio (“Thunder”), capace di soffocare e di dare respiro nello stesso pezzo (“One Hand Behind The Devil”). Esisterebbero i Maruja senza questo strumento (e senza Joe Carroll)?

Credo di poter affermare tranquillamente che no, non potrebbero mai esistere i Maruja senza Joseph Alfred Carroll, aka The Saxophone Man. Bhe, era abbastanza evidente, ad esempio, se qualcuno è stato al Sonic Blast Festival in Portogallo. Quella fu la seconda volta che suonammo senza Joe e senza sax. E, nonostante ciò, abbiamo spaccato comunque, proprio come all’OFF Festival in Polonia: quella fu la prima volta che suonammo senza di lui a causa di un infortunio. Ma entrambe le volte, nonostante avessimo fatto quello che dovevamo davanti ai nostri fan, non è stata la stessa cosa. È come se recidessimo un arto ad una gigantesca creatura psichedelica e questa finisse rannicchiata in un angolo, tutta sanguinante. È così che definirei i Maruja senza il sassofono, così come se non ci fosse uno qualsiasi di noi, anche se, ovviamente, alcuni elementi sono più evidenti di altri. Se non hai il batterista, sarebbe semplicemente stupido. Ma, esattamente come dici nella domanda, il modo in cui descrivi il suono del sax è proprio il motivo per cui quell’elemento aiuta a definire in maniera così netta il sound dei Maruja. Ma, alla fine, tutti e quattro siamo alla stessa maniera essenziali per la creazione del nostro sound.

Riguardo questo, il jazzcore è uno dei cuori pulsanti del vostro progetto. Se non mi sbaglio, il vostro background musicale non è di stampo jazzistico, giusto? Da cosa è nata l’idea di inserirlo all’interno della vostra musica?

Sì, hai ragione. Non abbiamo una formazione jazzistica, abbiamo seguito tutti lezioni individuali fino ad un certo punto. E, in fasi diverse, credo che io, Jacob, Matt e Harry abbiamo tutti abbandonato i corsi musicali dell’università perché non rispettavano gli standard che ci aspettavamo di trovare. Non erano stimolanti, non rispecchiavano il livello di ambizione che volevamo ottenere da giovani. Quindi, da quel momento, abbiamo imparato a suonare l’uno con l’altro. E ascoltare una larga fetta di musica, soprattutto jazz, mi ha aiutato. Questo è venuto fuori nel modo in cui ci esercitiamo e suoniamo: non devi necessariamente avere una formazione di tipo jazzistico per capirne i meccanismi. Anche molti iconici jazzisti del tempo hanno assimilato determinate capacità soltanto suonando insieme, ascoltando e studiando, in una sorta di materia non teorica che si basa solo sul praticare lo strumento e sul comprendere come funziona l’esecuzione. E credo che è proprio per questo che abbiamo sviluppato questo sound unico, che incorpora principi del jazz, free-jazz ed altri sottogeneri. Ma sì, non abbiamo una formazione scolastica in quell’ambito.

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Da band emergente, come avete accolto il grandissimo responso che ha seguito la pubblicazione di “Knocknarea”? Ve lo aspettavate? Cos’è cambiato, invece, con l’uscita di “Connla’s Well”? Vi sentivate più sicuri dei vostri mezzi?

Sì, lavoriamo sulla musica da quando abbiamo otto anni. Quindi è stata un po’ la nostra vita per gli ultimi vent’anni. È qualcosa che abbiamo sognato e manifestato per tutta la vita. Sai, non c’è mai stato un piano B, ma solo un piano A. Quindi il fatto che stiamo avendo del riscontro ci sembra decisamente meritato, dopo ben dieci anni di band, lavorando duramente ogni settimana, buttando sangue, sudore e lacrime per la causa. Sai, abbiamo lavorato tanto e adesso sta succedendo. È meritato. Ciò non toglie nulla alla sua bellezza. E, uh, c’è del surrealismo in tutto questo, perché, ovviamente, spendi tutta la tua vita a lavorare su qualcosa e non necessariamente questo vuol dire che un giorno ti ripagherà. Quindi il fatto che ci siamo riusciti è una testimonianza della nostra arte, del nostro duro lavoro e dell’empatia tra di noi ed il team che ci supporta. Sì, sono cambiate un po’ le carte in tavola per “Connla’s Well”, perché pensavamo: «Cavolo, c’è veramente della gente che vuole ascoltare la nostra roba». Prima c’era qualcuno, ma non ai livelli che abbiamo raggiunto ora. Quindi sì, pubblicare qualcosa in quel momento era decisamente eccitante, perché lo stavamo per fare, per la prima volta, con una vera fan base consolidata.
Ci sentivamo più sicuri andando avanti e adesso pensiamo che le canzoni, esattamente allo stesso modo di “Knocknarea” – se non di più – compongano un duo di EP davvero formidabile, capace di di toccare argomenti autentici e riflessivi tra società e cultura. Questo è quello che la nostra musica incorpora: credo che a livello sonoro rifletta tutte le nostre emozioni e poi, a livello di testi, arrivi a dare una visione più profonda dall’alto.

Le vostre sono autoproduzioni di altissimo livello: il rimanere indipendenti è una vostra scelta dettata da motivi particolari o c’è dell’altro?

Credo di sì. Probabilmente è un mix di motivazioni: da una parte quella di essere indipendenti è stata una scelta, dall’altra il fatto che proveniamo da Manchester non ci ha dato grossa possibilità di optare per altro. Non abbiamo neanche lontanamente le stesse opportunità che hanno altre band e artisti provenienti da Londra, sede di un sacco di etichette.
Quindi un sacco di band uscite dalla scena del Windmill Brixton vivono praticamente a due passi dai centri nevralgici dell’industria musicale, mentre a Manchester dobbiamo costruirci da soli la nostra fanbase, iniziando qualche anno prima. Per dirla in una maniera particolare, dovevamo conquistare Manchester prima di mirare a spostarci verso Londra. E, da quando ci siamo spostati, abbiamo iniziato a trovare più spinta dal music business. Per quanto riguarda il lato della scelta, invece, lo abbiamo fatto perché volevamo curare personalmente le nostre cose. Lo facciamo da anni e “Knocknarea è stato il primo tassello di quello che volevamo raggiungere coi Maruja in termini di sound, di messaggio e di tutto il resto. Sai, è il nostro figlio, esattamente come “Connla’s Well” e come qualsiasi altro progetto che verrà in futuro. E lotteremo fino alla morte per proteggerli, il che implica che dobbiamo stare attenti a qualsiasi, come dire, affare losco lungo il percorso. Ciò significa che non firmeremo qualcosa all’istante, del tipo “soldi immediati, immediate opportunità”. Siamo davvero prudenti e oculati su cosa vogliamo prendere dall’aiuto derivante dall’industria musicale.
Ci piaceva essere indipendenti perché potevamo avere pieno controllo. Ma adesso siamo arrivati ad un punto dove stiamo aumentando la visibilità e gli introiti e quindi abbiamo la possibilità di non esserlo più. Abbiamo avuto tanta carne sul fuoco per molto tempo.

Grazie del tempo che ci avete dedicato, è stato un piacere parlare con voi. Prima di lasciarci, volete dire qualche parola ai lettori di Spaziorock? Ciao!

Vi amiamo tutti! Da Matthew Buonaccorsi e I Maruja. Ciao!

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