Potremmo sintetizzare questo concerto con una similitudine un po’ banale: i Glass Animals, dal vivo, sono spaziali come un alieno che allestisce una discoteca sulla sua astronave (se è vero che esistono gli alieni, allora ne esistono sicuramente di discotecari).
Ma andiamo con ordine e partiamo dal pianeta Terra, una sera milanese come tante altre. Le porte dell’Alcatraz aprono alle diciannove, come di consueto. Vi si fionda all’interno uno stuolo di avventori molto giovani e dal vestiario alquanto disparato – corone di fiori e gonne color pastello affiancano anfibi e felpe degli Avenged Sevenfold con noncuranza –, poi però l’afflusso sembra arrestarsi bruscamente: quando arriva il gruppo d’apertura, le The Big Moon, tra le prime file si sta larghissimi, e anche alla fine del loro set la sala appare piuttosto svuotata.
Le quattro londinesi, comunque, aprono la serata con un live ben suonato (le armonie tra la voce principale Juliette Jackson e le altre musiciste sono la ciliegina sulla torta) e a dir poco intrigante: in questo assaggio dei loro tre album si riconosce l’influenza di certe distorsioni anni ‘90, ma con una squisita venatura pop, in maniera non troppo dissimile dai Wolf Alice. Un peccato che siano passate relativamente inosservate, forse per via di una certa “distanza” stilistica dal gruppo principale, sebbene l’ottima cover di “Praise You” di Fatboy Slim abbia riscosso gli astanti dall’immobilismo. Per chi ama queste sonorità, se non altro, è stata una scoperta davvero interessante.
Il momento del cambio palco rivela una scenografia niente male, con una fila di schermi dal design vintage a imitare la consolle di una navicella spaziale. Poi un membro della crew sale sul palco portando un ananas in trionfo come un sacro Graal alternativo, il pubblico prorompe in odi al suddetto ananas, il tutto mentre parte “Così parlò Zarathustra”, tema principale di “2001: Odissea nello spazio”. Siamo pronti al decollo, diretti verso avventure parecchio bizzarre.
Se c’è qualcosa che emerge con particolar forza, in effetti, è la capacità della band di catapultare il pubblico in una dimensione alternativa in cui tutto ha più grinta, tutto è più colorato, inclusi i i brani dell’ultimo disco “I Love You So F***ing Much”, che pure in studio risultavano più scialbi delle fatiche precedenti, anche a detta di alcuni fan (i quali, in questo frangente, si ritrovano a cantare a squarciagola dalla prima all’ultima nota). E che dire dell’art-pop di “How To Be a Human Being” e “Dreamland”? Dal vivo sono un caleidoscopio. Ne è un emblema l’iniziale “Life Itself”, che con le sue percussioni prese dalla musica etnica e i suoi synth fantascientifici ha il sapore, più che di una discoteca, di un’intera crociera intergalattica.
Dave Bayley esordisce in balli e movenze frenetiche dal secondo zero, cosparso di luci neon, con indosso una giacca che si toglie quasi subito (e anche così, a fine serata sarà comunque fradicio di sudore, avendo deciso che stare fermo è un’opzione superflua). Il frontman si erge a capitano indiscusso di questa astronave, muovendosi da autoproclamata star della pista da ballo, interagendo continuamente con i fan e in generale divertendosi come un matto. Gli altri membri della band rimangono più defilati: il batterista Joe Seaward nell’angolo a sinistra, il chitarrista Drew MacFarlane e il bassista Edmund Irwin-Singer perlopiù abbarbicati sulle loro pedane con le tastiere, talvolta scendendovi quando imbracciano gli strumenti a corda.
L’unico neo della scaletta è la quasi totale assenza di brani dell’album d’esordio, “Zaba” (2014). Ne è una felice eccezione “Gooey”, eseguita con Bayley aggrappato al mixer per la prima metà della canzone. Altri momenti alti non mancano, specie verso la fine — da una fantastica “Pork Soda”, in cui sul palco vengono lanciati peluche a forma di ananas, a una “Tokyo Drifting” senza Denzel Curry, ma con un alieno gonfiabile tra il pubblico, a fare compagnia alla mucca che fa headbanging in prima fila dall’inizio della serata. Si finisce con quella “Heath Waves” che oggi potrebbe appiccicare ai Glass Animals l’immeritata etichetta di “one-hit wonder”, ma che il pubblico affezionato non accoglie in maniera granché diversa dal resto della setlist (ossia con entusiasmo e lanci di ananas).
Una frase di Bayley, in questo viaggio interplanetario, non è passata inosservata: “This is our second time in Italy, we should do it more often”. I quattro, infatti, avevano suonato in Italia solo una volta, nel lontano 2014: rattrista un po’ che questo ritorno a distanza di un decennio sia avvenuto in un Alcatraz non totalmente pieno. A maggior ragione, però, ci troviamo d’accordo con Bayley: dovrebbero farlo più spesso.
Setlist:
Life Itself
Your Love (Déjà Vu)
Wonderful Nothing
Space Ghost Coast to Coast
A Tear in Space (Airlock)
Creatures in Heaven
Youth
Lost in the Ocean
Gooey
Show Pony
The Other Side of Paradise
Take a Slice
Pork Soda
Tokyo Drifting
Heath Waves