Roma caput mundi regit orbis frena rotundi

In una serata capitolina nella quale si cominciano finalmente a percepire, pur in modo blando, i primi brividi autunnali, l’Epic Prophecy For Europe casca come il cacio sui maccheroni, visto che la quaterna Batushka, Vltimas, God Dethroned e Ater costituisce quell’amalgama musicale di intransigenza, cattiveria, ascetismo e vaga orecchiabilità capace di scaldare, terrorizzandolo, il timpano collettivo del Traffic Live Club. Un rendez-vous dalle sfumature molteplici, che vede esibirsi sul palco formazioni protagoniste di peripezie varie, tra vicende legali, cambi di monicker, liaison impensabili e piccole resurrezioni dalla polvere, per un sabato d’inizio ottobre da ricordare sino al fatidico momento dell’estrema unzione. Magari anche successivamente, quando le fiamme dell’Inferno vi stuzzicheranno le terga vizze e villose.

Ater

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Le ante si spalancano alle 19.00, denotando un’affluenza già piuttosto cospicua e che, composta in egual misura da vetusti metallari con la birra nelle arterie invece del sangue e giovani leve dal face painting modello Kiss, raggiungerà, durante la kermesse, numeri notevoli, riempiendo il locale a sazietà. E a stimolare il ricorso a mosh e pogo, che poi, con scarna frequenza, assumeranno fisionomie originali, sfiorando forme di preistoriche e rudimentali breakdance, pensano i cileni Ater, quartetto in ascesa frutto della mente creativa di Fernando ¨Feroz¨ Bühring e artefice di un ottimo successore del debutto “Eternal Grey Spiral” (2018), ovvero “Somber”, risalente all’aprile di quest’anno e qui offerto pressoché integralmente. Il gruppo di Santiago, che si presenta alla torma in sai e copricapi à la Sunn O))), propone un blackened death metal acido e oppressivo, saturo delle poliritmie meccaniche dei Meshuggah e di un doom così massiccio da rasentare le vibrazioni vesuviane del drone. Canzoni cupissime, monolitiche, asfissianti, tese a ridurre in cenere e polvere chiunque osi cercare un minimo di ossigeno nei fugaci bagliori di sollievo acustico: il rodaggio perfetto per una gala dai mille rivoli oscuri.

Setlist

01. Stiges
02. Descending
03. Somber
04. Through The Portal
05. Ignis Immortalis
06. Sæculi Fine

God Dethroned

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Tocca ai nederlandesi God Dethroned incendiare realmente il set, forti di un The Judas Paradoxrilasciato appena lo scorso settembre, a pochi giorni dall’avvio del tour nel Vecchio Continente. Dopo un’ambiziosa e in fin dei conti gradevole trilogia ispirata al soggetto della Grande Guerra, il gruppo di Bellen, attraverso la tracklist non straordinaria di “Illuminati” (2020), tornò a interessarsi di questioni religiose, in particolare di carattere occulto/massonico, arricchendole di paternali a sfondo satanico molto più acri e aggressive rispetto a un sound proposto molto rotondo, pregno di ammiccanti suggestioni epico/melodiche. Certo, a cagione delle assidue traversie in sede di line-up e dei chiari di luna del singer e chitarrista Henri Sattler, il combo non ha mai più ripetuto le prodezze di principio carriera, impelagandosi in mutazioni stilistiche spesso artisticamente nocive, oscillazioni, tuttavia, che sembrano trovare, ora, un discreto punto di equilibrio nella scrittura dei nuovi pezzi. La fusione delle tante anime che li contraddistinguono sin dal 1992, dall’istintiva matrice thrash di marca Slayer  a un blackened death metal dalle calcolate venature doomy e che non disdegna nutritive scorribande sui mari dell’heavy classico, si percepisce al meglio nella prova on stage, con ben cinque brani dell’ultimo platter esposti in vetrina.

La coppia “Asmodeus”/”The Hanged Man” inaugura il concerto avviluppando la moltitudine entro le spire di un sound lineare e rissoso che, nella manieristica pletora di ritornelli cantabili e atmosfere goticheggianti, si addice egregiamente alla dimensione live, che si parli di spazi enormi o venue anguste. Il quartetto, però, entusiasma davvero quando assesta la doppietta “Serpent King”/“Boiling Blood”, estrapolata, non a caso, dal meraviglioso “Bloody Blasphemy” (1999), e che porta nel midollo il marchio di Reign In Blood, piste precorse da una “Spirit Of Beelzebub” capace di arruffianarsi la platea a forza di facili ed efficaci cori pseudo-mistici. Il mastermind, look stile Anton LaVey, ringhia muscolare e autoritario, incarnando, tramite l’ausilio degli accesi e simpatici compagni d’arme, il ruolo di un’esperta rockstar prestata al cosmo extreme, movenze ed espressioni che si riflettono nell’interpretazione settantiana di “The Judas Paradox”, una sorta di jam session dal sapore californiano, a patto di utilizzare un pizzico di fantasia, sostituendo il sole con il plenilunio. Prestazione energica e genuinamente interattiva, quindi, conclusasi con un video social di mano del barbuto bassista Jeroen Pomper e deputato a immortalare spettatori e musicisti in saecula saeculorum: apoteosi!

Setlist

01. Asmodeus
02. The Hanged Man
03. Rat Kingdom
04. Spirit Of Beelzebub
05. Serpent King
06. Boiling Blood
07. Illuminati
08. Hubris Anorexia
09. The Judas Paradox

Vltimas

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Suscitava enorme curiosità la verifica on stage degli Vltimas, l’entità capeggiata dall’alpha man David Vincent che, dopo un “Something Wicked March In” (2019) oggetto di un’accoglienza entusiastica da parte di ascoltatori e critica in virtù di un death metal freddo, chirurgico, marziale, ha visto scendere i generali consensi per un secondo opus, Epic(2024), meno ingegnoso del predecessore e con alcune manifeste concessioni al mercato. Malgrado non esistessero dubbi di sorta circa la caratura tecnica e la reputazione degli attori in gioco, qualche dubbio, alla vigilia, sarebbe forse potuto sorgere di fronte alla credibilità live di un supergruppo i cui membri, che vivono in nazioni diverse (Canada, Portogallo, USA), condividono del tempo insieme principalmente durante le registrazioni in studio, magari riuscendo, per competenza, maturità e fiuto affaristico, a sopperire a quella mancanza di profonda conoscenza reciproca che, dal vivo, fa sempre la differenza. Eppure, complici i quarantotto mesi di esistenza e un discreto numero di concerti alle spalle, l’act riesce a sfoggiare una performance impeccabile, anzi, occorrerebbe dire imperiale, pensando alla natura strength and honor del progetto, con la piacevole constatazione che altresì i brani non eccezionali di ambo i full-length riescono a sollevarsi da una sufficienza di stima.

Benché le schitarrate gelide e industriali dell’ex Mayhem Rune “Blapshemer” Eriksen continuino a commuovere i cuori avanguardisti di “Grand Declaration Of War” e Paweł Jaroszewicz, dietro le pelli, svolga senza sbavatura alcuna le veci di Vostra Altezza Criptopsy Flo Mounier, è l’ex cantante dei Morbid Angel a signoreggiare la scena. Sornione, istrionico e a proprio agio nei plurimi registri vocali impiegati, nonostante le sessanta primavere ormai prossime a scoccare, il frontman si presenta con abito e trucco che sembrano richiamare la mise dark-western di un Carl McCoy reduce, dopo il ruolo del wanderer nel cult movie “Hardware”, dal Rocky Picture Show, generando sorrisi e inevitabili prurigini kitsch. Attraverso un campionario di clean, semi-recitato, spoken word e growl dalla misura light, il tutto, as usual, molto intelligibile, il singer ruba decisamente l’occhio, consentendo di soprassedere a qualche eccesso teatrale durante l’esecuzione delle canzoni più catchy della scaletta (“Invictus”, “Mephisto Manifesto”, “Miserere”). E allorché, prima della violentissima chiusa “Everlasting”, la folla intona in vernacolo locale il cordiale e ingegnoso verso “Se voi non fate l’ultimas noi non ce ne andiamo”, frase che porta Dave ad abbozzare addirittura una tarantella, si comprende la validità indiscussa di un esame complessivo superato magna cum laude. Un’esibizione potente, precisa, brutale, carica di un groove mirabile, con il suono dei pezzi che, emancipati da una produzione originale un po’ troppo nitida, guadagna sensibilmente in ferocia e affilatezza. Insomma, un livello da maestri, come era doveroso – ma non scontato – attendersi.

Setlist

01. Epic
02. Praevalidus
03. Invictus
04. Mephisto Manifesto
05. Exercitus Irae
06. Last Ones Alive Win Nothing
07. Scorcher
08. Miserere
09. Everlasting

Batushka

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Circa alle 23.00, inizia un evento da ritenersi per molti versi storico, dal momento che si tratta di una delle ultime comparsate, con questo nome, dei Batushka di Bartłomiej Krysiuk: a dicembre, infatti, i polacchi si denomineranno Patriarkh, mettendo così la parola fine, deo gratias, alla diatriba con l’ex collega Krzysztof Drabikowski, vincitore della battaglia giudiziaria per la proprietà esclusiva del monicker. Una faida infinita, peggiore soltanto della lunga serie di cornificazioni delle soap opera nordamericane e responsabile, oltre che  di confusione e della genesi di due fazioni contrapposte di fan, di una discesa qualitativa in studio di entrambe le formazioni. Differente il discorso, invece, per le performance live di entrambi gli antagonisti, quasi sempre in grado di portare a casa la pagnotta, anche grazie a una messinscena particolarmente evocativa che riesce a spingere il cervello, inebriato dai vapori dell’incenso, a spengere l’interruttore del raziocinio, trasportandolo a ritroso nei secoli, ai tempi dell’evangelizzazione dell’Europa orientale per opera dei fratelli Cirillo e Metodio. Pertanto, come da copione, una fluviale intro dà rilievo all’ingresso dei giganteschi cinque monaci polacchi, che invadono un palco stracolmo di candelabri, croci ortodosse, teschi e polittici bizantini, e indossando gli usuali paramenti clericali di colore bruno e risvolti aurei che ricalcano – eccetto i totenkopf impressi sulle tonache – le autentiche divise dei sacerdoti della Chiesa scismatica di tradizione russa.

I volti, incappucciati, appaiono nascosti da una tela nera, una mimetizzazione che, se agli esordi poteva ricordare il morph dei connazionali Mgła, provocando illusori e stupidi paragoni, oggi, visto il proliferare di entità dal viso coperto, essa ha un po’ smarrito quella primeva possa di suggestione. In pochi attimi, comunque, si addensa un clima di intensa comunione, un religioso e atavico silenzio accompagnato dalla fragranza delle oleoresine in combustione e dall’orda luccicosa degli schermi degli smartphone, mai così attivi per eternare la sacrilega cerimonia. Lo rappresentazione, rispetto agli spettacoli dell’odiato avversario, riserva un’enfasi enorme alla componente spirituale, dalla quale il pubblico si lascia ubriacare ed estasiare, cinto da una selezione di tracce che, oltre a un gustoso pugno di inediti, pesca dal full-length Hospodi (2019), dagli EP “Raskol” (2020) e “Carju Niebiesnyj” (2021) e dal masterpiece “Litourgiya”, il solo lavoro sulla lunga distanza del 2015 figlio della concordia e della collaborazione. A prescindere dalle osservazioni polemiche, un black metal mesmerico, e occasionalmente screziato di darkwave, rappresenta la colonna sonora di una messa inversa, che adopera la simbologia cristiana e i poemi in slavonico antico per celebrare la glorificazione della pura blasfemia, con i ministri del culto sull’assito intenti a condurre la cerimonia per mezzo di gesti e mimica corporea intrisi di grande lentezza ritualistica. L’imponente Bart, non provvisto di strumentazione e intabarrato da capo a piedi in una tunica bianca da patriarca costantinopolitano, aggiunge un surplus di mistero ed esoterica solennità alla celebrazione, alternando scream e basso profondo mentre solleva e depone su un baldacchino le icone che riproducono le copertine dei vari dischi a firma Batushka, laddove i cori alle spalle elevano a sistema liturgico l’umana richiesta di instaurare un rapporto diretto con la divinità, persino a costo di sacrificare la propria anima. Chiuso il sipario a mezzanotte e rotti, gli uditori, seguendo con lo sguardo la flemmatica processione del corteo di Białystok, levano le tende, a mo’ di Re Magi tornati stanchi, ma vittoriosi, da una convegno militaresco sui piatti territori della Drenthe.

Setlist

01. Yekteniya III: Premudrost’
02. Yekteniya IV: Milost’
03. Wieczernia
04. Powieczerje
05. Polunosznica
06. Utrenia
07. Irmos II
08. Irmos III
09. Pismo IV
10. Wierszalin III
11. Wierszalin IV
12. Wierszalin VIII

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